Nikita e Leonardo, chef e sommelier de L’Arcade di Porto San Giorgio raccontano la loro cucina incalzante, arrovellata, audace e allo stesso tempo riflessiva, italiana ma senza dimenticare le origini slave dello chef
di Alessandra Meldolesi
La fortuna aiuta i capaci: ha compiuto undici anni l’Arcade di Nikita Sergeev, ristorante sul quale ben pochi avrebbero puntato quando il suo chef biondo e spettinato fece capolino nella cucina italiana. Nato a Mosca, ma innamorato delle Marche fin da giovanissimo, quando passava in vacanza con i genitori, Nikita si era inizialmente dedicato a studiare Scienze Politiche fra la Russia e l’Italia, fino alla sudata laurea sul sistema tributario. Ed è stato quando ha scoperto che il suo titolo qui non era riconosciuto, che per restare ha dovuto inventarsi rapidamente qualcosa.
In casa sua si era sempre mangiato benissimo: mamma Ekaterina Sergeeva, che a lungo lo accompagnerà nel suo percorso, gestendo col sorriso la sala, e nonna Tamara lo avevano introdotto fin da piccolo ai gusti e alle feste slave. Da quell’imprinting l’idea di iscriversi e diplomarsi ad Alma, con stage al Tramezzo di Parma; per poi lanciarsi immediatamente nella mischia, da autodidatta pressoché totale. Il primo locale, in una galleria di Porto San Giorgio, è intimo, con appena sette tavoli apparecchiati in tutta fretta: dentro quel bozzolo la sua cucina matura, anche grazie alla frequentazione da cliente delle grandi tavole e alle letture compulsive. Con lui il sommelier Leonardo Niccià, con cui intraprende degustazioni approfondite sulle nuove Marche e sul mondo. Tanto che rapidamente l’Arcade diventa uno dei ristoranti dove si beve meglio e in modo mai banale.
Dopo qualche anno, il ragazzo in jeans e scarpe da ginnastica può vantare uno stile personale: quello di una cucina incalzante, arrovellata dalla ricerca di un equilibrio dinamico e da un ideale di audacia ragionata, estremamente riflessiva. Per così dire sulle montagne russe, ma in mezzo alle morbide dune marchigiane. Possono farsi largo qua e là accenti più classici o zampate avanguardiste, ma restano costanti la passione della ricerca e il senso della sfida nel controllo. Né mancano talvolta accenti slavi, dal tè fermentato alle bacche di olivello spinoso, fino all’ineludibile insalata russa, quasi per scherzo in verità. “Perché la mia cucina è italiana al 100%: essere straniero rende certe tradizioni meno ovvie”.
Ormai gli spazi vanno stretti ed è nel 2021 che l’Arcade si trasferisce sul mare, nel bellissimo locale panoramico e arioso che era appartenuto ad Aurelio Damiani, sacerdote del pesce adriatico, sottoposto a ristrutturazione integrale. Il premio è una stella Michelin lampo, mentre la cucina prosegue inquieta la sua corsa. E chissà dove arriverà.


Nikita: Io e Leonardo ci siamo conosciuti nel 2015, 9 anni fa. Io cercavo e lui cercava, così è successo che ci siamo incontrati. A quei tempi eravamo giovani e naïf, ma lui aveva più esperienze di me e io ne ero affascinato. Lavorava già in sala, sapeva gestire i numeri e il servizio. Non è mai successo che dovessi riprenderlo.
Leonardo: Sono nato qui a Porto San Giorgio, dove lavoravo nel mondo della notte, dopo aver frequentato Alma, come Nikita, nell’ottica di ampliare il mio campo visivo alla cucina, per poi rientrare in sala. Nel frattempo mi ero diplomato sommelier AIS, anche se poi sono passato all’ASPI, che ha un’impostazione più professionale.
Nikita: Praticamente subito abbiamo iniziato a viaggiare tantissimo per cantine, ma anche sui libri, cercando di trovare qualcosa di nuovo e diverso da offrire al cliente, rispetto alla ristorazione della nostra categoria. Quindi ci siamo sforzati di evitare i blasoni, privilegiando vini meno roboanti ma più curiosi. Ricordo queste degustazioni con vitigni stranissimi, praticamente sconosciuti; poi è arrivato il momento degli orange, le bolle ancestrali, i primi greci e croati. E siccome si faticava a trovarli dai distributori, cercavamo online, auspicando che il cliente volesse studiare insieme a noi.
Leonardo: Perché lo chardonnay è reperibile ovunque e per qualsiasi tasca, ma un viognier, un pignoletto oppure un vino del Lazio ci hanno mostrato come stupire diversamente.
Nikita: Al suo arrivo Leonardo ha trovato una base di carta dei vini, con lo zoccolo duro della ristorazione. Nel tempo lo abbiamo sviluppato sempre più come profondità di annata e ricerca sul territorio, cosicché oggi viaggiamo sulle 1300 etichette. Mi piace sottolineare che la maggior parte costa fra i 40 e i 100 euro, grazie ai ricarichi modesti e alle scelte a monte, perché il vino si deve vendere, non deve stare fermo. Agli ospiti voglio offrire la possibilità di scegliere di più con meno spesa, ma non sarebbe possibile senza il setaccio iniziale del rapporto qualità prezzo.
Leonardo: Certo conta anche il territorio, in particolare il recente rinascimento del Verdicchio grazie a piccoli produttori come la Marca di San Michele e la Distesa. È un vino che è tornato in auge e chi passa lo cerca, mentre anni fa non si poteva nemmeno nominare. Un’altra mia passione è la Vernaccia secca di Serrapetrona, tipo Lambrusco sugli aperitivi. Con i ragazzi una volta a settimana teniamo una degustazione alla cieca di bottiglie monovitigno, che cerchiamo di indovinare. È una forma di allenamento che ci aiuta a superare le false aspettative.
Nikita: A volte capita anche a me di prendere una bottiglia in giro e farla assaggiare alla squadra. Poi ovviamente c’è il momento dei pairing, per il cambio menu ma anche dopo, quando cerchiamo nuovi abbinamenti, in modo da non stancare chi torna.
Leonardo: Ho una dozzina di vini fuori carta solo per quello.
Nikita: Sono tanti anni che collaboriamo, quindi ci capiamo al volo. Il lavoro parte dal palato mentale, immaginando quali possano essere i gusti, prima dell’assaggio. Spesso non cerchiamo il contrasto, ma la concordanza, per sottolineare qualche aspetto del piatto, per esempio il balsamico. Poi a un certo punto assaggiamo e sistemiamo l’abbinamento ragionato mentalmente. In questo modo possono partire cose interessante: invece di iniziare con una bolla, una birra acida; oppure a un certo punto un distillato, un sidro di pere o lo Sherry.

Alessandra Meldolesi
Nata a Perugia, Alessandra Meldolesi dopo gli studi e uno stage alla Comunità Europea ha scelto la cucina, diplomandosi alla scuola Lenôtre di Parigi e lavorando brevemente come cuoca presso ristoranti stellati. È sommelier, autrice di numerosi libri, traduttrice e giornalista specializzata da oltre vent'anni.

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