I fratelli Pierluigi e Nicola insieme al sommelier Matteo, custodi di una cantina più che ventennale con oltre 2000 referenze, hanno deciso di svariare dall’eccentrico al classico per soddisfare ogni palato. La loro filosofia: ogni sorso e ogni morso raccontano una storia unica
di Alessandra Meldolesi
Non basta avere una grande cantina. Non basta investire cifre astronomiche nel vino. Non basta arruolare stuoli di sommelier e centrare un paio di abbinamenti perfetti. Da qualche decennio La Peca insegna come far tendenza mettendo una bottiglia in cantina e poi accanto a un grande piatto. A iniziare è stato Pierluigi Portinari, che ha affiancato naturalmente il fratello cuoco Nicola, entrambi autodidatti cresciuti nella gastronomia con macelleria di famiglia. A lui si deve la carta monumentale di cui ancora si favoleggia, tomo degno di una grande maison transalpina, eppure profondamente diverso nello spirito e nella composizione originale, che oggi ha ceduto all’Ipad.
Nel 2009, poi, è arrivato Matteo Bressan. “Avevo 22 anni e sono entrato come cameriere. Poi è successo che il sommelier se ne è andato e io quasi per gioco mi sono proposto. Mentre servivo ai tavoli, per un anno e mezzo, sono rimasto affascinato dalla visione di Pierluigi, dal modo in cui spiegava la ricerca sottesa a ogni scelta, dalla mancanza di preconcetti. Basta pensare che già 25 anni fa proponeva i suoi ‘Vini fuori dal coro’, una selezione di circa 300 naturali. Perché il nostro lavoro è anche anticipare. È successo che non ha trovato sostituti, così ha deciso di lasciarmi fare. Poi pian piano ha intravisto in me qualcosa e ha pensato di plasmare la mia passione. La carta era appena stata nominata come la migliore dell’anno, ma nel tempo siamo passati da 1700 a oltre 2000 referenze. Ciò che conta, però, non è tanto il numero quanto la varietà: c’è di tutto per tutti, dagli amanti dei vini naturali, cui siamo da sempre legati senza esclusivismi, a chi cerca grandi etichette, bottiglie di nicchia, vini locali. Sono ordinate per regione, cominciando dal Veneto. E ancora oggi Pierluigi non molla un colpo: c’è sempre, insieme a me e Carolina Balbo, quando si tratta di prendere la decisione finale o di scoprire un vino. Il confronto è continuo”.

Pierluigi: “Le degustazioni le facciamo insieme e decidiamo insieme cosa prendere. Assaggiamo i piatti e qualche volta, se c’è un menu prefissato con vini già decisi, giochiamo a togliere o aggiungere qualche ingrediente, per ottenere un’armonia migliore, senza mai stravolgere la composizione. Curo anche la pasticceria, che però è più facile, perché si finisce con un dolce singolo. A volte penso una ricetta e subito mi viene in mente il vino. Anche ossidativi dal finale secco o rossi che abbiano un po’ di rotondità, per non cozzare col tannino”.
Matteo: “Io però ho tolto l’abbinamento cibo/vino, che preferisco fare al tavolo. Con Pierluigi svolgiamo una ricerca maniacale, ma se uso sempre gli stessi calici e non muovo mai la cantina, diventa monotono. Voglio offrire a ogni ospite la possibilità di assaggiare un vino, che normalmente farebbe fatica a trovare, e apro al calice qualsiasi cosa, cercando di andargli incontro. La cucina contemporanea offre spazi limitati all’abbinamento, perché presenta un insieme di ingredienti molto vasto, spesso in contrasto. A volte ti devi conformare alla mano dello chef, ma non è realmente l’abbinamento che vorresti”.
P: “Matteo ha un modo di abbinare che va incontro ai gusti dei clienti, anche perché i piatti hanno acidità e aromi tali, che in un menu degustazione dovresti avere lo stesso numero di corse e di calici. Allora diventerebbe difficile. Quindi si cerca un vino che possa interagire bene con diversi piatti, in base al tipo di cliente”.
M: “Penso che mettendo in sequenza dieci vini, si creerebbe troppa confusione. Su una degustazione di una dozzina di portate vedo meglio 4 o 5 calici, in modo che l’ospite abbia il tempo per concentrarsi sul vino e goderselo. Altrimenti non è mai valorizzato, anche se l’abbinamento funziona. Se lo chef è libero, perché non dovrebbe esserlo anche il sommelier? Nel mio ruolo porto avanti il ragionamento che abbiamo sempre adottato e che sempre adotteremo, nella cucina e nel vino”.
Nicola: “È il motivo per cui due anni fa a Capodanno abbiamo proposto un incontro di boxe fra me e Matteo, io ho fatto le mie cose e lui le sue. In tutto erano 25 portate, compresi cocktail alcolici e analcolici”.
M: “Me lo ricordo bene, l’incontro di boxe. Passata la pandemia, Nicola aveva questo desiderio di buttare fuori un sacco di piatti nello stesso momento, cinque alla volta, in tutto ventisei, per avere la tavola sempre imbandita. Ma mettere sommelier contro chef è far vedere come già lavoriamo. Quindi il menu è uscito quando avevo già scelto i vini e ciononostante ha funzionato bene. È stato un modo per invitare gli ospiti a considerare le cose diversamente. La struttura andava dal bianco al rosso, ma vagava fra i vini più strani. Insomma un pairing alla cieca, perché in fondo tanti vitigni si abbinano a cose diverse. Penso ai Riesling o ai vini del Jura, che stanno bene praticamente su tutto. Ciò non toglie che quando escono i menu, io, Pierluigi e Nicola ci sediamo insieme e assaggiamo i piatti, per farci un’idea dei vini ed eventualmente proporre qualche modifica, in base alla conoscenza dei clienti. I cuochi hanno un percorso che è giusto facciano, ma poi bisogna andare al tavolo. Allora può mancare acidità, l’insieme può tendere verso l’amaro, possono servire piccoli aggiustamenti anche nelle sequenze prima dell’uscita. Tante volte l’opinione finale spetta al cliente habitué, ma se l’input è bello, lo accogliamo anche a piatto finito”.