Una vacanza alle Baleari della famosa wine writer inglese ci offre la possibilità di conoscere un po’ più da vicino i vini maiorchini.
di Francesca Ciancio
Anche i wine writer vanno in vacanza e una delle più preparate e argute penne del mondo del vino, l’inglese Jancis Robinson, ha raccontato le sue ferie trascorse a Maiorca, in Spagna, senza tralasciare qualche scoperta enologica fatta sull’isola. L’articolo, apparso sul Financial Times (ma si può leggere anche qui), è interessante per la visione d’insieme che la famosa giornalista del vino offre della più grande isola delle Baleari dal punto di vista vitivinicolo. Negli ultimi 20 anni sono nate oltre cento aziende – spiega Robinson – ma ciò che manca davvero è un laboratorio enologico! Insomma la scrittrice lamenta un certo pressappochismo in fatto di analisi e consigli competenti. Addirittura compaiono nelle retro-etichette delle bottiglie nomi di uve maiorchine che non figurano neanche negli elenchi dei vini autorizzati per le due principali denominazioni isolane, ovvero Binissalem, dal nome del paese vicino a Consell, la denominazione più antica e nota soprattutto per i rossi corposi ottenuti dall’uva Manto Negro. C’è poi Pla i Llevant nel sud-est dell’isola. La sua uva principale è il Callet generalmente fresco e leggero. In entrambi i distretti vinicoli si producono anche una miriade di bianchi secchi dal vitigno autoctono noto in vari modi come Prensal Blanc, Premsal Blanc e Moll.
E pensare che prima dell’attacco della fillossera Maiorca contava ben 30.000 ettari di vigne che producevano vino che veniva mandato là dove l’afide aveva già fatto danni. A inizio ‘900 poi toccò anche all’isola e si passò a 3mila ettari in pochi anni. Oggi sono meno di 2 mila, ma comunque in leggera crescita rispetto al minimo storico raggiunto a inizio Duemila con poco più di mille ettari. La mancata espansione dei vignetiè legata soprattutto all’alto costo della terra, diventata meta immobiliare soprattutto per nordeuropei alto spendenti. Il che vuol dire che le aziende vinicole hanno sempre venduto i loro vini a prezzi importanti, pur non garantendo sempre una qualità eccellente. Ora c’è una inversione di tendenza legata al cambio di tipologia turistica, con arrivi più sofisticati e persone più preparate sul modo dei vini di qualità.
Come i produttori di vino di tutto il mondo negli anni ’80 e ’90 – continua la giornalista inglese – anche i viticoltori maiorchini hanno abbracciato vitigni internazionali come il Cabernet Sauvignon e lo Chardonnay. Oggi invece vanno di moda le varietà autoctone, in particolare il Callet, che risponde proprio all’attuale tendenza verso i rossi più leggeri e freschi, da bere freddo. Un grande promotore di questa e di altre uve indigene è stato l’enologo francese Francesc Grimalt, anche proprietario della Bodega Anima Negra. A lui si deve la valorizzazione del Fogoneu Mallorquin, che potrebbe essere un genitore del Callet, a basso contenuto di alcol, così come della Gargollasa o Gorgollasa, che nella sua delicatezza ricorda quasi un Pinot Nero. Ma lunga è la lista degli autoctoni tutti da scoprire e sui quali fare un lavoro più accorto: l’Escursac, il Jaumillo, il Vinater. Un patrimonio ampelografico così variegato grazie al clima secco che lascia i vigneti di Maiorca relativamente indenni dalle malattie fungine a cui sono soggette le viti. Sono anche tante le bottiglie certificate biologiche e inoltre – come scrive la wine writer – molti di questi vini non superano i 13 gradi alcolici. Robinson fa un plauso anche alla bellezza delle etichette che valuta attraenti e attente al design. Insomma, i vini maiorchini sono considerati molto alla moda in Spagna e chissà che non lo diventino presto anche altrove. E se lo dice Jancis Robinson….