Nel 1990 la fondazione del Consorzio: il presidente ripercorre la storia, le conquiste e le nuove sfide della denominazione che ha rivoluzionato il Metodo Classico in Italia. “La crisi del vino deve trasformarsi in occasione per evolversi”
di Federico Gordini
Hai vissuto la genesi del Consorzio Franciacorta, da 35 anni fa ad oggi. Quali sono i traguardi raggiunti?
Sono entrato nel Consorzio nel 1995, quando Franciacorta era al quarto posto tra i produttori di Metodo Classico in Italia. L’obiettivo era ambizioso: diventare leader per qualità, valore e numeri. Attraverso scelte audaci, innovazioni nel disciplinare e l’introduzione di regole tra le più severe in Europa, il mercato ha riconosciuto il nostro impegno, premiandoci con risultati straordinari.
Rispetto ad altre zone vinicole, la Franciacorta ha la caratteristica di avere grandi aziende che sono diventate grandi brand.
Tra i fattori chiave del successo della denominazione c’è stato il contributo determinante di pochi produttori illuminati. Queste realtà, già affermate all’epoca, hanno deciso di continuare a investire, non solo per sé stesse, ma per l’intero sistema Franciacorta. È un caso raro vedere aziende leader che scelgono di rafforzare anche i concorrenti, con l’obiettivo di elevare l’intero territorio, ma la sfida è stata ripagata da una crescita condivisa che ha rafforzato tutta la nostra denominazione.

Franciacorta è un marchio italiano conosciuto in tutto il mondo; c’è ancora molto da fare all’estero per comunicare il valore del territorio e della cultura dei suoi prodotti?
Abbiamo fatto tanto, ma il nostro cammino è ancora lungo. La produzione è limitata e non vogliamo crescere a tutti i costi in termini numerici: il nostro obiettivo è fare cultura del vino e alzare l’asticella della qualità. Il consumo di bollicine è in crescita nel mondo, così come il numero di produttori di Metodo Classico, e questo rende il contesto sempre più competitivo ma anche sempre più stimolante.
Molti esperti concordano nel dire che il futuro del vino è la ristorazione. Come Franciacorta lo avete certamente riconosciuto – ad esempio diventando partner della Guida Michelin – ma in un momento in cui, stando ai dati, il 45% dei consumatori beve ed esce meno, soprattutto nei grandi centri, quali strategie possono essere adottate per potenziare il ruolo della ristorazione nel rilancio del mondo vino?
Negli ultimi anni, il settore della ristorazione ha vissuto profondi cambiamenti. Tra fattori economici, guerre, dazi e un Codice della Strada mal comunicato, non ci troviamo in una situazione semplice, ma spero che offra anche un’occasione per evolvere. Se cambiano le esigenze dei consumatori però deve cambiare anche l’offerta. Nel mondo si lavora con due turni a sera, e anche in Italia dobbiamo abituarci a questa pratica. Bisogna ampliare l’offerta al calice: quando andai in America la prima volta vent’anni fa rimasi molto stupito dal posizionamento al bicchiere, oggi l’ho capito. A New York va molto bene anche il formato ‘quartino’, perfetto per le coppie — certo, se andiamo al ristorante io e mia moglie, di quei 250 millilitri 200 li consumo io (ride, ndr). Il servizio deve però essere impeccabile: il vino va versato al tavolo, nel bicchiere giusto, e va raccontato così come si racconta una pietanza, soprattutto nei locali dell’alta ristorazione. Noi italiani siamo così abituati alla normalità del vino che quando andiamo al ristorante chiediamo “portami un bicchiere di vino” senza pensarci nemmeno, ma invece dobbiamo tornare a conoscere e valorizzare i prodotti enologici, e i ristoranti devono aiutare i consumatori a scegliere.

C’è anche un problema di dequalificazione del personale di sala. Cosa si può fare per valorizzare questi ruoli?
Bisogna pagare la professionalità. Negli USA il sistema delle mance è strutturato e permette di riconoscere il valore del servizio. Non dico di arrivare a quel modello, ma dobbiamo rendere il tipping una pratica più diffusa anche in Italia. Chi prende la comanda deve essere un venditore esperto, chi serve deve conoscere il prodotto, e ci deve essere una gerarchia chiara. Oggi, invece, si tende a fare un po’ di tutto, con il rischio di abbassare il livello del servizio. Anche Bottura lo dice: in un ristorante, la sala è il 52%. Serve empatia ma ci vuole anche mestiere. Un grande oste ti fa star bene prima ancora che ti sia versata l’acqua. Queste persone però vanno pagate.
Come possiamo riavvicinare le nuove generazioni al vino?
Io che ho due figli giovani so che i ventenni di oggi bevono più di quanto pensiamo, ma il problema è di comunicazione, non di prezzo o alcol. Con un gin tonic si fa bella figura, con il vino si ha paura di sbagliare. È un problema enorme, perché la cultura del vino dovrebbe essere inclusiva, non elitaria. Dobbiamo trovare nuovi modi di presentarlo: in uno studio in Canada, ad esempio, hanno diviso i vini per famiglie cromatiche, aiutando i consumatori a orientarsi: “se ti piace questo vino, allora prova questi”. Non è necessario conoscere a memoria i nomi dei produttori di Barbaresco per godersi un buon bicchiere. Dobbiamo preparare un percorso semplice per chi entra nel mondo del vino, avere il coraggio di presentarlo in modo diverso, e invitare i giovani a berlo senza aver paura dell’errore.

Si parla molto di vino e salute. Angelo Gaja di recente ha scritto della differenza dell’alcol nel vino rispetto ad altri alcolici; si citano studi clinici, e anche sulle pagine di Vendemmie abbiamo ospitato pochi giorni fa l’intervento dell’oncologo Lorenzo Livi. In questo dibattito qual è il tuo punto di vista?
Io ho iniziato a frequentare la cantina di mio nonno quando ho imparato a camminare. Il vino per me è cultura, convivialità, e faccio notare che i Paesi europei che ne consumano di più non sono quelli con i maggiori problemi di alcolismo. C’è una narrazione distorta che demonizza il vino, spesso sostenuta da chi ha interessi nel promuovere il cibo processato. Consiglio un libro straordinario, Breve storia dell’ubriachezza, che racconta come dalla fermentazione del grano sia nata tutta la nostra civiltà. Le differenze tra il vino e altri alcolici – e tra vini prodotti in modo diverso, di maggiore o minor qualità – esistono e si vedono anche negli effetti il giorno dopo, ma non dobbiamo farci ingannare dagli interessi di chi vorrebbe farci credere che un buon piatto di pasta o un secondo fatto con ingredienti freschi, consumati assieme a un buon calice di vino, comportino più danni che benefici.
Pochi giorni fa abbiamo assistito alla conferenza del Consorzio in cui Alessandro Masnaghetti ha raccontato, attraverso mappe e immagini, i territori del Franciacorta. Eppure mancano collegamenti efficienti tra Milano e la Franciacorta: è necessaria un’azione di sistema per potenziare l’enoturismo non solo in Lombardia ma in tutta Italia?
L’enoturismo è un’opportunità enorme, ma siamo partiti tardi. Quando negli anni ’90 è nato il fenomeno di Cantine Aperte, ha avuto un grande successo, ma l’esperienza era ancora molto rudimentale: tovaglie di plastica, bicchieri di carta, accoglienza poco strutturata. Oggi le cose sono cambiate, ma c’è ancora molto da fare. Fino a dieci anni fa, in Franciacorta si pensava che aprire le cantine nei weekend fosse un business a perdere. In realtà, il vero valore aggiunto è la possibilità di comunicare direttamente con il cliente: il tuo target è letteralmente a casa tua.
La mobilità resta un problema serio. In Lombardia i servizi pubblici non brillano per efficienza e manca una rete di trasporti ben strutturata per chi visita le cantine. Al momento, ci troviamo in una situazione paradossale: per spostarsi da un paese all’altro non si può certo prendere la metro o chiamare un Uber. Le soluzioni non sono semplici, perché chi investe tempo e denaro per un’esperienza in cantina difficilmente accetterebbe di mettersi in coda per un pullman. Credo che nel 2025 dovremmo avere un sistema simile a Uber, che potrebbe offrire un doppio vantaggio: da un lato, consentire ai cittadini di arrotondare con un servizio di trasporto flessibile; dall’altro, colmare l’attuale carenza di taxi e alternative di mobilità adeguate.

Sei quasi al termine del tuo secondo mandato di presidenza. Qual è il lascito di questi sei anni?
Il primo mandato è stato particolarmente complesso: nel 2019 abbiamo dovuto affrontare la ristrutturazione della nostra sede storica, un processo impegnativo che ha richiesto una gestione attenta. Poi è arrivato il Covid, che ha stravolto completamente il 2020 e il 2021, imponendoci nuove sfide e rallentamenti.
Molto più stimolanti sono stati gli ultimi anni, durante i quali abbiamo raggiunto traguardi importanti. Abbiamo portato Franciacorta agli Emmy Awards, un evento glamour di risonanza internazionale che oggi significa Netflix, Disney+, Amazon Prime e tutto il gotha del mondo dell’intrattenimento. Abbiamo avviato una collaborazione con la Guida Michelin, che ci ha dato l’opportunità di entrare in contatto diretto con l’alta ristorazione. Quest’anno lanceremo un progetto in Giappone, finanziato anche grazie ai fondi europei: fino al 2019 era il nostro primo mercato di export e continua a essere tra i più importanti per noi. Anche il rinnovamento della nostra immagine ha rappresentato un passaggio fondamentale: all’inizio poteva sembrare superfluo, ma oggi, guardando il vecchio logo, mi sembra preistoria.
Alla fine, fare il vino è solo metà del lavoro: l’altra metà è farlo capire al consumatore. E noi abbiamo ancora tante cose da fare!