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“Con Sinner brindo a Paleo e Montrachet, Panatta va a gazzosa”

Tempo di lettura: 4 minuti

di Luca Serafini

Paolo Bertolucci, grande stella del tennis e oggi commentatore televisivo, si racconta: “A 18 anni festeggiavamo le vittorie con un fiasco… Sui social posto solo bottiglie pregiate. Fu grazie a una cena che diventai telecronista. A tavola vado di pesce e farinacei”

“Per fare bene una cosa devi essere capace e ti deve piacere”.

Il dogma di Paolo Bertolucci, “braccio d’oro” del tennis italiano, così soprannominato per la classe nel suo gioco. Il curriculum porta via molto spazio: primo giocatore italiano per 22 settimane consecutive (l’unico ad aver vinto 3 tornei sulla terra rossa nella stessa stagione), 6 titoli in singolare, miglior doppista della storia italiana di questo sport: in coppia con Adriano Panatta ha conquistato 12 titoli su 19 finali disputate (i soli a vincere a Montecarlo, nel 1980). Soprattutto, era uno dei 4 moschettieri della squadra che vinse la prima storica Coppa Davis nel 1976, disputando altre 3 finali: eventi che hanno ispirato la fortunatissima serie Sky “Una squadra”. E proprio SkySport è diventata la sua casa.

“Terminata la carriera agonistica”, racconta, “sono diventato tecnico federale, quindi vicecapitano e infine capitano della squadra di Davis. A fare il commentatore non ci pensavo proprio, tutt’altro: mi sembrava un mestiere lontano dalle mie corde”.

Invece è diventata una professione…

“Come molte cose nella vita, nacque per caso a tavola. E – pensa un po’ – è stato grazie al calcio, il mio secondo amore. Un amico mi invitò a una cena ufficiale durante il famoso torneo giovanile di Viareggio, dove premiavano giornalisti, allenatori, dirigenti… Mi ritrovai seduto accanto a Darwin Pastorin, direttore della neonata StreamTv. Mi disse: abbiamo acquisito i diritti di alcuni tornei di tennis, ti piacerebbe fare il telecronista? Mi invitò a un provino, ci andai non troppo convinto, davvero. Mi fece commentare pochi minuti, un solo game di una partita, poi entrò in cabina e mi disse: va bene, va bene, vai di là a firmare il contratto”.

Cosa non ti convinceva?

“Il principio per cui, appunto, per fare bene una cosa devi conoscerla e amarla. Preferivo scrivere articoli, nonostante all’inizio abbia fatto fatica: mi chiedevano molti articoli, a me serviva tempo e invece andavano a spron battuto. Piano piano ho preso la mano, anche perché racconto i match il giorno prima e il giorno dopo: intendo dire che mi soddisfa di più l’approfondimento tecnico rispetto alla cronaca, sono due cose molto diverse. Il giornalismo dovrebbe trattare così tutti gli sport, distinguendo il racconto dall’analisi”.

Telecronista e seconda voce fanno questo, infatti, e a te riesce bene.

“Mi documento, mi aggiorno, leggo molti giornali stranieri, telefono spesso a ex giocatori per confrontarmi con loro su certe cose. Soprattutto, ripeto, conosco la materia e la amo”.

Com’è nato il tuo secondo amore, il calcio ma soprattutto il Milan?

“Grazie al tennis!”, ride. “I miei genitori avevano un circolo a Forte dei Marmi, un giorno arrivò uno dei clienti e mi regalò un piccolo gagliardetto rossonero con una spilla del Milan, di quelle che si appuntano sulla giacca. Avrò avuto si e no 5 anni. Poi fu Gianni Rivera a farmi perdere la testa per quello sport e per quella squadra… Glielo dico ogni volta che lo incontro”.

Sei diventato amico di qualche giocatore?

“Costacurta è stato per anni mio vicino di ombrellone a Forte dei Marmi e adesso ci incrociamo spesso a Sky. Conoscevo bene Cesare Maldini e quindi sono legato a Paolo, tutta la loro famiglia frequenta la Versilia da sempre, è più facile incontrarsi”.

Sui social posti spesso bottiglie di vino pregiato: il terzo amore?

Ride ancora: “Da atleta ovviamente l’alcol era bandito. Quando ho smesso di giocare ho iniziato un giro culinario per tutta l’Italia! E hanno iniziato a coccolarmi, ma anche a farmi crescere conoscenza, curiosità, passione: non puoi mangiare quello se non bevi questo, non puoi non assaggiare quest’altro… Ho la fortuna di aver incontrato collezionisti di altissimo livello, con i quali trascorriamo molto tempo: ultimamente mi hanno portato a New York per la serata del Barolo. Mi hanno viziato: adesso quando mi propongono vini di basso livello, li rifiuto. Non sono come Panatta che è abituato a bottiglie imbevibili…”.

Quali vini preferisci?

“I bianchi francesi e quelli tra Friuli e Trentino Alto Adige, i rossi piemontesi e toscani. Pensa che i primi sorsettini, i primi assaggi, li devo a Mario Belardinelli: grande dirigente tennista, è stato per noi il secondo padre perché iniziò a seguirci quando eravamo minorenni. Dopo le vittorie apriva un fiasco di vino, ne versava meno di un dito a me, Panatta e agli altri (era praticamente il nostro premio-partita), poi lo nascondeva poggiandolo per terra vicino alla sua sedia. Noi italiani siamo ben diversi dagli australiani: loro festeggiano con litri di birra”.

Al ristorante ordini…?

“Preferibilmente pesce, ma adoro iniziare il pasto con i farinacei”.

A cena con Jannik Sinner cosa consiglieresti?

“Paleo se va di pesce o Montrachet. Con Adriano Panatta invece gazzosa: non capisce niente di vino, è sprecato metterlo in tavola. Devo dire però che adesso vive a Treviso e hanno iniziato a istruirlo, è meno ignorante di prima sulla materia: non è mai troppo tardi”.

Tu invece hai visitato anche grandi aziende.

“Sì, sì, diverse in Toscana e poi qualche volta a Brescia nel regno del Franciacorta. A suo tempo apprezzavo i vini di Nils Liedholm, anche se purtroppo lui e Nereo Rocco non li ho mai conosciuti di persona”.

Il Milan di Pioli che vino è?

“E’ stato un eccellente frizzantino. Ultimamente troppi alti e bassi, un vino è buono o non lo è, dev’essere unico e particolare. Questo Milan adesso è invece un mix di sapori non sempre armonici”.

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Luca Serafini

Dal 1° febbraio 2024 direttore responsabile di Vendemmie, giornalista e scrittore, ha una lunga carriera televisiva alle spalle ed è tuttora opinionista sportivo tra i più apprezzati. Ha pubblicato saggi e romanzi, con “Il cuore di un uomo” (Rizzoli, 2022) ha vinto il premio letterario “Zanibelli Sanofi, la parola che cura”.

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