“Santi e bevitori”: itinerari semi-sobri tra cultura, religione e contraddizioni nelle terre del proibizionismo
di Titti Casiello
“Stringo i denti ed entro nel lounge del Town House Galleria, dove servono gin tonic da un carrello attrezzato con secchielli di ghiaccio, scorze di limone e bastoncini di vetro. Mi piace andarci all’ora in cui so che non c’è gente e che il bar mobile sarà mio, nient’altro che mio”.
È un inno agli spiriti ebbri, ma anche e soprattutto una ricerca per curare l’alcolismo, l’ultimo libro di Lawrence Osborne “Santi e bevitori” che dopo anni passati a bere ai bar dei più lussuosi alberghi del mondo ha deciso di percorrere “un viaggio alcolico tra terre astemie”.
Due, infatti, gli anni trascorsi in Medio Oriente durante i quali lo scrittore e giornalista londinese, in una brillante disamina della sobrietà (e non), percorre il paese del proibizionismo attraverso un’insolita mappa tracciata dalle vie dall’alcol.
Tra preconcetti e paradossi del mondo islamico, in un tour dei bar degli hotel di lusso per occidentali (che sono spesso stati obiettivi di attacchi terroristici kamikaze) Osborne descrive l’impossibilità anche solo di domandarsi quale sia il desiderio umano in nome di una religione che decide per i singoli individui, annientandoli, o di contro scopre, invece, in alcune terre tutta l’apparenza e il finto perbenismo di questi dogmi religiosi (a volte neppure mal celati).
Come quando a Surakarta, presidio indonesiano di al-Qaida, non ha problemi a bere una birra proprio sotto a un ritratto di Osama bin Laden o a Islamabad dove le pagine del Corano diventano quasi evanescenti mentre si ubriaca in uno dei paesi considerati più pericolosi e ostili all’alcol.
“Santi e bevitori” è tutto un andirivieni di discorsi virgolettati con i viandanti di turno mescolati a riflessioni crude e intense che mostrano come, nascosti dietro questo debordante peso religioso, gli Stati islamici siano abitati anche da molti che seguirebbero più volentieri il proprio istinto piuttosto che il loro credo.
Ed è per questo che, allora, descrive con ammirazione la più finta delle città, con Dubai creata a tavolino per soddisfare e lusingare la cultura occidentale. Una città palesemente e dichiaratamente falsa e quindi allora più vera di tante altre che cercano di darsi un tono che alla fine, forse, neppure vorrebbero.

Non manca però di descrivere anche quell’altra faccia del Medio Oriente, che non deve sforzarsi a celare l’alcol né a venderlo sottobanco e ci porta così in Libano (Paese arabo in cui è ammesso) con quella cultura del vino che passa tra le correnti del monte Libano in “quell’area ineffabile di pioggia, bruna e malinconica”. È qui che Osborne si scopre a bere con un’eccezionale varietà di bevitori di ogni età, genere e religione in un atto tanto gioioso che politico con il “bere che diventa l’avanguardia in una terra altrimenti infestata dai men in black della religione”.
È, infatti, a Beirut, in visita nella residenza di Sa’d Hariri, futuro primo ministro, che scopre quanto questa libertà sia costruita sulle sabbie mobili “tanto che lui un giorno può condannare gli astemi vestiti di nero al di là delle colline e un anno dopo appoggiarli, per sopravvivere”.
“Un giorno toglieranno l’acqua ai vigneti” e a quel punto la valle della Beqà, oggi in mano a Hezbollha, smetterà di produrre i suoi celebri vini come lo Château Musar e gli ottimi vini novelli di Kefraya.
Ma non è ancora questo il tempo e alla fine Hezbollah non pare il vero problema “si riesce sempre a trovare un accordo con gli sciiti, il problema è con il fanatismo sunnita”.
Le pagine si susseguono e più Osborne macina chilometri più Al Qaida è agli angoli di ogni strada. Lo scrittore, allora, incontra la realtà conosciuta, quella dichiarata e violenta, e la sua gioiosa epicurea si trasforma lentamente in un incubo in Paesi in cui si ostina a cercare alcol anche dove è seriamente impensabile, come a Mascate, in Oman, alla ricerca di una bottiglia di Champagne (che non troverà) per brindare all’anno nuovo in compagnia della sua fidanzata italiana Elena.
I lunghi giorni di astemia generano i mal di testa, i tic e i blackout tipici dell’alcolista e danno spazio a pagine intime e dolorose nelle quali rivivono i suoi legami familiari sempre segnati dall’alcol, come con sua madre, anche lei giornalista e scrittrice, e anche lei alcolizzata, e, poi, la sua prima ubriacatura con la vodka quando era praticamente ancora un bambino o il rapporto con suo suocero polacco, celebre violinista e direttore d’orchestra, morto di cirrosi epatica a 44 anni.
Eppure, l’humor riesce a pervadere in ogni capitolo delle poco più di duecento pagine che, alla fine, generano attaccamento una dopo l’altra, tant’è che il libro si legge tutto d’un fiato. A legarle è una traccia non scritta, una nota a piè di pagina invisibile, dove ci si domanda costantemente come la parola vino, fonte di convivialità e condivisione, sia stata plasmata nei millenni dal sapere umano per divenire il suo esatto contrario etimologico, tra quelle pagine cristiane della Bibbia che lo vorrebbero finanche il sangue di Cristo a quelle islamiche del Corano tale da diventare, invece, una malattia dell’anima.
Quello del libro è allora un finale potente e realistico, in ogni caso sconfortante, specchio dell’attuale inconciliabilità lacerante tra Oriente e Occidente, gli uni nemici dell’altri, gli uni che però non possono fare a meno degli altri per sopravvivere proprio come gli astemi e i bevitori “in uno spirito di reciproca incomprensione”.
*Foto di copertina riportata in apertura: John Register, Martini (1994)

Titti Casiello
Classe ’84, avvocato. Dopo una formazione all’AIS Milano, è diventata giornalista pubblicista e oggi collabora con alcune riviste e guide di settore.