Il figlio d’arte del grande attore, come lui appassionato di enogastronomia, parla dei valori e dell’amore per la terra “che dà tutto ciò che serve per vivere”. Le bottiglie hanno etichette fatte a mano: “Sono molto eno e poco logico, amo la tradizione di famiglia, ma la mia è la cantina più social d’Italia”. “Gli chef sono maschi, ma le parole come nonna, mamma, massaie, cucina, agricoltura, terra, uva, verdura… la rendono un’arte donna”
di Luca Serafini
“Come sempre c’era la volontà di dare a Ugo quel che era di Ugo: mio padre aveva la capacità di essere un grande visionario, un anticipatore dei pensieri e nei fatti”.
Gianmarco Tognazzi resta innamorato del grande attore che gli ha dato i natali, non vive del suo ricordo bensì della sua filosofia, dei suoi valori, raccontandoci un privato che non era segreto e in fondo neanche troppo privato.
“Fu forse il primo mattatore del cinema a fare la televisione: prima le pubblicità, poi la cucina dove portò il suo concetto di famiglia allargata: un dogma ampio e profondo, in una società che gli stava stretta. Ugo guardava avanti voltandosi dietro, restando attaccato alle sue radici e alla sua cultura”.
Lasciò la ribalta per vivere in campagna.
“Scelse Velletri perché aveva dalla terra tutto ciò che gli serviva per vivere, per cucinare. Sai, Pellegrino Artusi (scrittore, critico letterario e gastronomo, professò la scienza della cucina e del mangiare bene, ndr) e le massaie sono state i suoi maestri, le sue guide: gli chef sono stati i maschi per decenni, lo erano per antonomasia, ma la ricetta è storicamente al femminile, pensaci. La tradizione è donna: le nonne, le mamme, le massaie…”.
Qual era il suo dogma ai fornelli?
“Già negli anni Sessanta diceva che la cucina del futuro si basava sulla materia prima di qualità, la sua risorsa erano i prodotti dell’orto, quello che adesso definiamo il chilometro zero. Per lui la tavola era convivio, il posto migliore dove scrivere i soggetti, appuntare le battute, buttare giù idee. I personaggi nascevano a cena”.
La terra però è fatica, prima del convivio.
“Specie per uno come Ugo. Era integralista, aveva un pollaio con 200 animali, dalla gallina all’oca alla faraona. Le due colture principali a Velletri erano uliveti e vigneti, davano meraviglioso vino e olio in una mini azienda agricola a conduzione familiare con pochi, selezionati prodotti di cui era orgogliosissimo. Vinificavamo in maniera artigianale: abbiamo sangue e origini venete, con la fissazione per la precisione e l’amore dei veneti nel gestire la terra. La definivamo una piccola svizzera enogastronomica e agroalimentare, la nostra. E su quella falsariga ho ripreso in mano le redini, concentrandomi solo sul vino”.
Si ferma. Sorride. Un nuovo ricorso: “Già, anche l’azienda agricola è femminile, l’agricoltura è femminile, l’uva è femminile, la verdura è femminile e quindi gli è nata l’idea di chiamarla ‘La Tognazza’, negli anni Sessanta. Ogni etichetta, dai sottolio al vino era fatta a mano, le disegnava da lui”.
Eppure non hai condiviso da subito quella esperienza.
“Io scappai perché mi sentivo rinchiuso all’aria aperta, come la gallina di Cochi e Renato. Sono andato a Roma riprendendomi da un’adolescenza vissuta in campagna tra le galline, poi ho subito il fascino del ritorno alla campagna. Non c’era più la carovana di ospiti che ogn giorno riempiva casa, ma siamo rimasti in famiglia. Mio suocero è sardo e ha rimesso mano alle vigne, abbiamo ricominciato a vinificare, la mia vera passione e un po’ anche per non ripetere ossessivamente papà: ho già tutto il resto in comune con lui, dalla squadra per cui tifo (il Milan), al mestiere fino alla conoscenza e all’amore per una filosofia di vita”.
La filosofia vinicola invece qual è?
Ride: “Ho sposato la filosofia del vino Chardonnay, Syrah con un retrogusto al pepe, quasi speziato. Poi il Merlot, internazionale, più semplice). Abbiamo 4 ettari vicino casa: facevamo anche un po’ di Tocai, Trebbiano, Malvasia. Ugo metteva 5 filari di una cosa, 5 di un’altra, tirava fuori bianco e rosso, poche bottiglie di ciascuno… Non c’era l’idea di diventare un’azienda o un ristorante, era solo per la famiglia e per gli amici: avevamo 8/10 ospiti a sera, aveva 4 persone in cucina, dava disposizione per la cena. Si stava in piedi sempre fino alle 2 di notte, nei weekend casa e terra erano proprietà dei suoi amici. Lo chiamavano ‘ugoismo’, la forma più alta di altruismo: non era ostentazione della sua passione o della sua bravura, ma la condivisione. Aveva creato una comunità di lavoro, di amici, la tavola era il veicolo fondamentale per le relazioni”.
Un film nato a tavola?
“Una volta Marco Ferreri disse: a forza de facce magnà così ce farai morì tutti quanti… Era il 1974, nacque ‘La grande abbuffata’. E poi naturalmente ‘Amici miei’. In quel periodo Leo Benvenuti e Piero De Bernardi (gli sceneggiatori), il regista Mario Monicelli, erano stanziali a Velletri. Finivano ogni notte biascicando e inventandosi termini che associavano a un’idea di Pietro Germi. Così tra un bicchiere e l’altro diedero vita alla supercazzola, tarapia tapioco, come se fosse antani, il conte Mascetti… E questi sono oggi i nomi dei vini che produciamo, riflettendoci è un omaggio che il film fa al vino e non viceversa”.
Ugo Tognazzi portò la cucina in tv, per primo.
“Il pioniere di ‘Masterchef’, di ‘4 ristoranti’, sì, proprio così. Conduceva ‘La mia cucina’ dopo aver fatto alcune puntate pilota per Videodelta che poi divenne Retequattro, insieme con il caporedattore della più importante rivista di settore, ‘Nuova cucina’: lui era Davide Paolini, enogastronomo che trasmetteva anche su Radio24, ‘Il gastronauta’. Ugo scrisse 5 libri. Insegnò l’impiattamento quando ogni trattoria, ogni ristorante, ogni posto serviva tutto col mestolo o il forchettone. Paolo Villaggio sulle prime lo prendeva in giro per questo, un po’ anche Diego Abatantuono, ma alla lunga è diventata una tradizione. A me oggi piace inventare, adesso: abbinare gusti e sapori diversi come un formaggio valdostano sulla pasta pugliese e un pomodoro calabrese, tanto per dire, anche se non sto in cucina di persona. Ha contribuito la versatilità geografica: sono partito dal Lazio, una regione che non ha limiti di microclima, ma la cultura del lavoro è singhiozzante. E’ una terra dove si privilegiava il vino sfuso di quantità e non di qualità. Per fortuna da qualche anno anche stanno dando un corso nuovo, comunque ho preso anche un terreno in Toscana e ho iniziato a produrre il ‘Toscazio’ dall’unione di due vitigni. Ho voluto imparare da gente di sapienza, accettando i loro consigli, scegliere gli interlocutori per fare un lavoro serio nella preparazione, nella gestione delle vigne, molto meno nella comunicazione…”.
In che senso?
“Non andiamo contro le regole, ma non siamo omologati a criteri che non condividiamo, come le certificazioni di facciata che non sono la chiave della qualità. Siamo usciti dagli schemi, preferendo serietà e sostanza, diciamo un’azienda molto eno e poco logica… Prima della pandemia producevamo 90.000 bottiglie, ora 50.000, piano piano risaliamo ma non ho fretta di fare i numeri, privilegio la qualità. Siamo la cantina più social d’Italia, siamo presenti online, nelle enoteche, nei ristoranti e nei bar, non nella grande distribuzione. L’enologo è Andrea Miceli, mia moglie Valeria si occupa logistica organizzativa, spedizioni, clienti, magazzino, rapporti con la cantina. Il mio socio iniziale Alessandro Capria gestisce la rete commerciale, gli agenti, la comunicazione, l’amministrazione mentre Simona Ottaviani dirige la casa museo di Ugo insieme con Valeria, organizzando degustazioni ed eventi. C’è una storia dietro ogni cosa”.
I mutamenti climatici ti spaventano?
“Non nego che ci siano cambiamenti, ma non sono per il catastrofismo. Cerco di fare tutto ecosostenibile, ma non sono un alfiere. Il mio vino è ecologico, ma non voglio certificazioni. E’ innegabile che ci siano mutazioni e il responsabile è l’uomo. Abbiamo tutti gli strumenti per rendere sostenibile il pianeta, a cominciare dall’idrogeno per le automobili. Però già un secolo fa si visse un anno più freddo, un anno più caldo, un anno più con più siccità. E’ anche una questione di cicli, non è che ogni situazione anomala o fuori controllo non sia fisiologica. Io faccio tutto ciò che posso: riscaldo con la samsa, ho i pannelli solari, potessi mettere l’eolico lo metterei subito, e sono favorevolissimo all’accumulo di energia. Ci sono tante formule per far andare meglio le cose, ma purtroppo prevalgono ancora gli squilibri: le guerre del mondo, per esempio, figlie di interessi economici che portano l’uomo a diventare autolesionista e fottersene del futuro. Le cose però si possono cambiare e non dobbiamo necessariamente aspettare i giovani”.
Luca Serafini
Dal 1° febbraio 2024 direttore responsabile di Vendemmie, giornalista e scrittore, ha una lunga carriera televisiva alle spalle ed è tuttora opinionista sportivo tra i più apprezzati. Ha pubblicato saggi e romanzi, con “Il cuore di un uomo” (Rizzoli, 2022) ha vinto il premio letterario “Zanibelli Sanofi, la parola che cura”.