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La cuoca selvatica riscopre i sapori antichi: “Gioco sulla curiosità, lavoro sulla tradizione”

Tempo di lettura: 6 minuti

Eleonora Matarrese, forager, consulente e autrice, racconta la natura che non mente: “Scavare nella terra e nella memoria per ritrovare ciò che rischiamo di perdere per sempre”

di Raffaela Cuccu

Un legame viscerale con la terra e il desiderio di estrarre dal suolo, e in particolare dal sottobosco, un valido apporto di nutrienti alternativi, questa l’idea di Eleonora Mattaresse, esperta forager e consulente, oltre che docente al Dipartimento di Scienze del Suolo, della Pianta e degli Alimenti dell’Università degli Studi Aldo Moro di Bari. La stessa ci ha raccontato come alcune erbe selvatiche siano dei veri e propri ‘’superfood’’ in grado di fornire principi attivi che si sostituiscono facilmente a integratori di origine artificiale o a ortaggi più comuni. 

Eleonora ha aperto per prima, nel 2014, a Monza, nei pressi della Villa Reale, un laboratorio gastronomico e piccolo ristoro d’Italia con cucina dedicata alle erbe spontanee. Recentemente si è poi trasferita sulla sponda piemontese del Lago Maggiore, alle pendici del monte Mottarone dove continua la sua attività. 

All’interno del suo libro “La cuoca selvatica – storie e ricette per portare la natura in tavola”, edito da Bompiani, tratta di etnobotanica e fitoalimurgia, introducendo una serie di considerazioni indispensabili per chi desideri approcciarsi per la prima volta a uno stile di vita sano e autosufficiente.  Il suo lavoro di ricerca, consiste nell’identificazione di specie botaniche e nel loro conseguente impiego in cucina. Non si tratta di sole erbe, ma di radici, fiori, frutti, semi, alghe, funghi. Tra le informazioni racchiuse all’interno del suo ricettario è inserito un calendario di raccolta utile per conoscere con esattezza il tempo balsamico di ciascun vegetale e ottenerne una resa qualitativa più alta. Ingredienti come acqua, aceto, latte, burro, farina sono le basi per la preparazione di alcune ricette riportate in fondo al libro. Alcune tra queste: la crema di germogli selvatici, zoodles al pesto di bosco e wild chip.

Abbiamo quindi deciso di rivolgere alcune domande su questioni di interesse attuale, riguardanti la diffusione, la qualità di specie selvatiche e i loro possibili utilizzi.

Qual è il significato più profondo del suo lavoro?

Il significato più profondo è sicuramente la connessione con gli antenati e il recupero di saperi che andrebbero irrimediabilmente perduti. Questo non significa vivere in un perenne stato di anelito per ciò che non è più, bensì è un mordente per recuperare ciò che è ancora, ma che potrebbe andare perso per sempre.
Al contempo, sento che il valore aggiunto stia nella mia ricerca, in relazione ad esempio ai manoscritti – soprattutto medievali – e nel cercare connessioni possibili tra le diverse discipline, così come accadeva in epoche precedenti alla nostra, per esempio, ai tempi di Isidoro di Siviglia e durante il rinascimento carolingio.

Lo sviluppo del Suo lavoro è stato chiaro sin dall’inizio?

Assolutamente sì. Sia durante le mie degustazioni che quando faccio consulenza agli chef ho sempre unito il valore storico e antropologico della pianta o parte di essa, che è imprescindibile. Per me, cresciuta in Puglia per 17 anni mangiando quasi esclusivamente cibo selvatico, il foraging è uno stile di vita e non è mai stato una moda.

Negli ultimi decenni abbiamo attraversato diversi cambiamenti relativi a stile di vita, educazione alimentare, etc. In relazione a quest’epoca qual è la sua posizione?

Mi dicono di essere una outsider, ovvero la voce fuori dal coro. Non mi sono mai interessate le mode, ma solo – in ordine – l’etica, la gentilezza e la bellezza. Cerco e cercherò sempre di insegnare, che è quello che mi sono sempre sentita portata a fare, direi la mia vocazione. Mi spiace quando mi rendo conto che c’è chi vuole carpire chissà quali segreti, quando sarebbe stato sufficiente ascoltare i nonni o allentare il legame con la carriera a tutti i costi. Il significato primario del mio lavoro è la semplicità, senza orpelli. Se penso invece alla mia ricerca, penso allo scavare per raggiungere una verità che sia documentabile.

In termini di clientela, quali riflessioni si sente di fare? Come viene percepito il Suo lavoro?

Questi due ambiti non vanno di pari passo e bisogna scindere i due binari paralleli. Da un lato, complice la moda del foraging, c’è tanto interesse che porta però anche chi non ha cognizione di causa a fingersi esperto e questo non è certo un bene. La diffusione dei social e soprattutto la loro velocità e immediatezza fanno sembrare tutto facile e scontato, quando in realtà bisogna studiare e non pensare di potersi improvvisare. Mi sono fortunatamente distaccata da certe dinamiche perché reputo la serietà un aspetto basilare. Le piante vanno riconosciute sul campo, mettendo in gioco tutti i sensi e raccolte solo se si può e nel momento giusto. Non serve fare la gara a chi prepara “cose” con le specie più strane se non addirittura pericolose e bisogna rispettare la normativa nazionale e comunitaria e non solo. Con mia grande sorpresa aver unito l’aspetto storico-antropologico, quello artistico e il recupero delle tradizioni non ha fatto altro che rafforzare l’interesse nei confronti della mia quotidiana attività.

Dietro al consumo di prodotti particolari come quelli da lei proposti, esiste una reale sensibilità riguardo a tematiche quali sostenibilità e consumo consapevole? O sembra trattarsi più che altro di una moda?

La proposta del mio laboratorio di cucina Pikniq è singolare e specifica: i clienti provano per curiosità, spinti magari anche dalla moda, per poi rendersi conto che il mondo non è solo quello finto e costruito. Ho molti clienti affezionati e persone che mi scrivono e si confrontano con me su tematiche serie. Fortunatamente, rispetto al novembre 2013 quando Pikniq ha aperto i battenti, la gente è diventata più consapevole e comincia a volersi più bene. Quello che ancora manca è la trasmissione a figli e nipoti come si faceva un tempo, eppure penso che nonostante siano cambiate le dinamiche relazionali si possa comunque costruire un rapporto “sul campo”, e questo vale anche per i docenti. La curiosità e la passione soprattutto dei più piccoli sono elevate e questo è un ottimo segno!

Per quanto riguarda l’aspetto territoriale e la presenza di specie vegetali autoctone, quali piante hanno subito trasformazioni nel corso degli ultimi anni (sia in termini di morfologia, sia in termini di diffusione)? Quali, secondo lei, le cause attribuibili?

L’uso indiscriminato di fitofarmaci, le tecniche di coltivazione invasiva, le monocolture, la scelta di semi ibridi e sempre delle stesse specie, la corsa alla produzione a tutti i costi, le normative che non tutelano i piccoli produttori, il dominio pressoché incontrastato della grande distribuzione e altro ancora, sono causa di mancanze, falle e problemi gravi su tutti i fronti (non solo le specie selvatiche).
Certo, la diffusione della Reynoutria japonica, la diminuzione di cinorrodi di Rosa canina per le temperature più elevate, addirittura la diminuzione del tarassaco in zone dove anni fa ce ne era tantissimo, sono tutti effetti di politiche sbagliate, disattenzione, fame di potere. Le piante non mentono.
Al contempo, però, l’uomo ha la presunzione di poter decidere anche su questo. La Natura si auto-equilibra, ogni anno ci sono alcune specie che sono fiorenti e altre che faticano. Lo dicevano anche i contadini: “questo è l’anno dei cavoli” o “quest’anno tantissime mele”. Ce lo insegna il faggio: un buon raccolto di faggiole si ha tradizionalmente ogni quattro anni, gli altri anni un po’ meno.
La Natura continuerà, in un modo o nell’altro. L’essere umano dovrebbe solo pensare a investire nello studio del restante 98% di specie vegetali non conosciute, al recupero dei semi di specie che potrebbero scomparire, alla scoperta di semi che non sono ancora stati scoperti e a un equilibrio che gli sarebbe innato se fosse acceso con tutti i sensi.

Quali piante si raccolgono in questo periodo dell’anno? Quali i loro utilizzi?

L’autunno, è davvero la stagione del raccolto, quel periodo che permette la raccolta di parti erbacee come le foglie nella cosiddetta “seconda primavera” o a cavallo dell’estate di San Martino, dei semi, di quelle specie – annuali o biennali – che stanno per terminare il ciclo vitale.


Non mancano frutti, drupe e bacche. Si comincia a raccogliere ciò che è ipogeo. Direi che un trionfo, e quindi chi è meno esperto può raccogliere le dieci piante che già conosce, senza il timore di incorrere in false friends, lasciando ciò che è in quantità inferiore o di cui non si è sicuri. Propongo sempre di dare una chance a piante bistrattate e invasive, come Galinsoga, la sovracitata Reynoutria japonica, il Rumex (queste ultime due da consumare con moderazione per l’alta percentuale di ossalati) e il farinello. Via libera alla panificazione con quelle castagne piccole che vengono abbandonate nel sottobosco perché “non vendibili”, o alla preparazione di una bella crema per farcire i dolci. Sarebbe utile riscoprire nespole, mele cotogne, carrube, giuggiole e quei frutti antichi che i bambini delle grandi città potrebbero non aver mai incontrato.
Raccogliere le foglie di fico e di artemisia prima che arrivi il freddo: le prime per essiccarle e avere una scorta di dolcificante – o da usare nei dolci per dare un aroma di cocco e vaniglia -, le seconde anche per la cura del corpo e degli ambienti. Si accendono in casa per ripulire l’aria, o per un bagno ristoratore, si utilizzano per conciliare il sonno e dormire bene, allontanare gli insetti fastidiosi o, semplicemente, si appendono sotto la doccia per diffondere il loro olio essenziale balsamico e profumatissimo, che metterà subito di buonumore. Cosa di cui, comunque, abbiamo tutti sempre bisogno.

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Raffaela Cuccu

Laurea in Scienze dei Beni Culturali, Master in Comunicazione per il Settore enologico e il Territorio, Sommelier. Lavora nel cuore della Valpolicella presso l’ufficio marketing di una cantina vitivinicola.

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