La next generation delle Tenuta Licinia è un giovane che ha portato la propria filosofia in cantina, seguendo gli insegnamenti del nonno
di Camilla Rocca
Negli anni ’70, il Conte belga Jacques de Liedekerke stringe amicizia con un signore toscano all’epoca residente in Belgio. Un viaggio insieme in Italia è l’occasione per l’amico di mostrare a Jacques un vecchio casolare di sua proprietà ormai in disuso, proponendogli di restaurarlo. La proprietà comprendeva anche un piccolo vigneto. Jacques accetta l’offerta. Negli anni successivi si dedica allo studio dei sottosuoli e si convince a rimettere in sesto la vigna, operazione che riesce a realizzare solo una volta raggiunta la pensione, quando si trasferisce in Toscana. Purtroppo, dopo la vendemmia del 2019, Jacques si ammala. Il nipote James Marshall Lockyer decide di trasferirsi in Toscana per occuparsi di Tenuta Licinia. In quel periodo James è impegnato in un dottorato all’interno del dipartimento di filosofia dell’Università di Oxford con un progetto di ricerca sulla natura e il valore dell’esperienza sensoriale, sulla corrispondenza tra proprietà naturalistiche e normative.
La stessa passione e dedizione adottate in ambito accademico James la applica allo studio dell’enologia. Concentra la sua ricerca sulle dinamiche d’interazione tra vite e sottosuolo e, soprattutto, sulla classificazione e comprensione della qualità dei diversi tipi di terreno. Ha inoltre coltivato un particolare interesse per la natura della qualità del vino e sulle proprietà che rendono un vino migliore di un altro. Lo abbiamo intervistato per una prospettiva frizzante e “giovane” sul mondo del vino toscano.
Che cos’è la next generation nel mondo del vino?
Non credo ci sia una netta cesura tra generazioni: stiamo imparando molto dalle precedenti, proprio come loro fecero prima di noi. Penso, quindi, che la next generation prenda in carico e faccia fruttare, in un certo senso, i progetti iniziati dai predecessori. Suppongo che ciò che la identifica maggiormente siano i progetti legati al clima e all’ecologia, insieme a nuove forme di storytelling e, anche se ne sono meno sicuro, sull’espressione dell’individualità nei vini. Mi piace identificarmi in parte con la “vecchia scuola” enologica, per la quale le proprietà sensoriali dei vini sono prioritarie, centrali. In tal senso ho una visione quasi oggettiva (anche se rivedibile) della qualità del vino, che credo non sia necessariamente centrale per la next generation. Non voglio dire che siamo opposti, penso solo che ci concentriamo su elementi diversi.
Perché è un tema così forte in questo momento?
Credo sia in parte dovuto al fatto che i giovani abbiano gli strumenti e l’esperienza utili a interagire in modo più diretto con i consumatori. Inoltre oggi, in generale, è più facile avere accesso a molte informazioni e dati. Penso anche che la next generation, in un certo senso, sia fortunata in quanto l’attenzione si sta sempre più spostando su un’agricoltura e una viticoltura di dimensioni locali. Le persone sono alla ricerca di prodotti artigianali. Le nuove generazioni, quindi, hanno delle opportunità che le precedenti non hanno avuto, o non così ampie.
Sostenibilità nel vino, importa davvero per la Next generation?
Tutti i giovani vignaioli che ho conosciuto hanno a cuore la sostenibilità, ciascuno a suo modo. Le persone, infatti, si concentrano su diversi elementi. Ci sono diversi livelli in termini di successo e di possibilità d’intervento. Molte pratiche sostenibili sono costose e quindi la capacità delle cantine di essere sostenibili dipende anche molto dalle loro risorse finanziarie.
Inoltre, dal mio punto di vista, mi sembra interessante che la next generation sia meno legata agli enti regolatori, ma più attenta alla qualità degli enti. I percorsi per ottenere le certificazioni e i requisiti richiesti si rivelano molto spesso estremamente problematici. La next generation, che ha chiaramente a cuore la sostenibilità, potrebbe forse essere maggiormente coinvolta e ascoltata a livello normativo e di incentivi. Una migliore regolamentazione, assieme a incentivi e sussidi più mirati, cambierebbe le carte in tavola a favore dell’ambiente.
Quanto è importante avere oggi in azienda un volto che racconti il brand?
La viticoltura è uno sport di squadra. Personalmente faccio parte della scuola dell’ottimismo: penso che se i vini sono ottimi venderanno, forse non subito, ma alla fine venderanno. In questo senso il volto di un’azienda non è così importante. Un volto e una storia possono essere utili a incuriosire e convincere le persone ad assaggiare i vini, ma non sono loro a fare buoni vini. La storia più bella può dare origine a vini terribili. Meglio grandi vini che grandi storie.
Possiamo dire che tu sei il volto della Next generation della tua cantina?
Credo di rappresentare letteralmente la next generation ma, come ho detto, siedo sulle spalle dei giganti. La successione generazionale non è una rottura netta. Le generazioni passate, non solo qui ma in tutto il mondo del vino, hanno fatto tantissimo. Sono ancora le loro testimonianze e i loro punti di vista a influenzarmi e a ispirarmi maggiormente.
C’è stato qualche scontro generazionale da quando sei entrato in azienda?
Credo che ‘scontro’ sia un termine forte, che non userei per descrivere la transizione che ci ha riguardati. Sono arrivato con l’intento di migliorare molte cose e ne ho cambiate diverse. Ma anche la generazione precedente ha fatto lo stesso. Non pensiamo che non possiamo fare di meglio, il che porta a un cambiamento. In termini di atteggiamento e relazioni interne non ci sono scontri, siamo tutti estremamente uniti ed è uno dei grandi punti di forza dell’azienda. Potremmo dire, quindi, che non c’è uno scontro tra generazioni, bensì un’armonia intergenerazionale.
Cosa vorresti dire agli altri produttori di vino? Hai qualche consiglio su come migliorare, basato su ciò che noti spesso tra i colleghi?
Come giovane produttore di vino, penso sia un po’ presto per dare consigli e non mi considero ancora del tutto qualificato per farlo. Tuttavia, posso condividere ciò che ho imparato dagli altri. Tre cose in particolare mi sono rimaste impresse: la prima è che la produzione del vino è un lavoro di squadra; la seconda è l’importanza di essere consapevoli dei propri limiti, di sapere ciò che non si sa. Infine, è fondamentale assaggiare il più possibile.
Gli importatori, i distributori e i commercianti ti hanno mai trattato con meno considerazione a causa della tua giovane età? Anche all’estero?
No, gli importatori con cui collaboriamo si sono sempre concentrati sulla qualità e sulle caratteristiche dei nostri vini, senza dare peso alla mia età. Se hanno mostrato interesse nei miei confronti, è stato più per il mio percorso accademico e per le idee che ho cercato di applicare. Ho sempre avuto ottime relazioni con importatori e distributori.
Quale vino della cantina rappresenta meglio la prossima generazione?
Direi il nuovo Sangiovese del 2023, che non ha ancora un nome, ma è il primo Sangiovese della cantina. Lo trovo interessante dal punto di vista generazionale, perché a volte penso che possa assomigliare al Sangiovese di 150 anni fa, diverso da quelli di oggi o persino da quelli del XX secolo. Naturalmente, non posso sapere con certezza se ricordi davvero un Sangiovese di quell’epoca, ma è stato lavorato con metodi che evocano pratiche del passato. Non credo che sia particolarmente simile a ciò che fanno altri della mia generazione, anche se ci sono delle affinità, specialmente al di fuori della Toscana. Tuttavia, penso che questo vino abbia anche un carattere contemporaneo. Forse c’è un tocco dello stile del sud del Rodano, una freschezza moderna che ricorda il Grenache. Ma è solo un’ipotesi. È un vino prodotto in una piccola parcella di un ettaro a cui tengo molto: 15 hl per un totale di 2000 bottiglie.
Camilla Rocca
Una passione per il mondo del vino che parte dalle origini, si è allargata all’enoturismo e ai racconti delle persone, di quei volti, quelle mani, delle storie che sono dietro alla vigna