Quando parliamo di anfore pensiamo subito alla Georgia, ma l’Italia ha acquisito nel corso degli anni una capacità e una consapevolezza unica sia nel suo utilizzo, che nella sua produzione. È il caso di Francesco Tava e Michele Bean, due artigiani di questo antico vaso vinario tanto in voga negli ultimi tempi, che vogliamo conoscere a pieno.
di Nello Gatti
Partiamo da Trento, da quella Via Matteotti in cui ogni anno numerose anfore raggiungono le principali regioni vitivinicole mondiali. A raccontarci la produzione sarà proprio lui, Francesco, l’enfant prodige di Tava.
I tuoi studi e la tua famiglia lasciavano intendere altro. Cosa ti ha spinto a indirizzarti nella produzione di anfore?
Ho intrapreso studi in filosofia e per parecchi anni, senza alcuna fretta e né particolare impegno, mi sono barcamenato tra lavori stagionali negli hotel e lavori nei locali padovani. Non ho terminato gli studi e come spesso accade la casualità ha voluto che rientrassi in Trentino in cui mi sono ritrovato a dovermi occupare del piccolo laboratorio di produzione ceramica utilizzata nella realizzazione di stufe tradizionali. Mio padre in quegli anni ebbe un incidente con alcune complicazioni e mi ritrovai senza particolare entusiasmo a dovermi trasferire a Mori per seguire l’attività. Sempre in quel periodo un amico mi aveva invitato ad una degustazione di produttori vitivinicoli della nostra zona dove conobbi alcuni utilizzatori di anfore che si rifornivano da artigiani spagnoli. Con slancio e profonda incoscienza mi sono proposto di produrre anfore enologiche avendo a disposizione forni e materia prima. Alcuni incontri fondamentali e qualche buona idea mi hanno portato a dedicarmi totalmente a questo progetto dando inizio all’attività vera e propria.

Parliamo di mercato, dai primi approcci alle mode di oggi. Cosa è cambiato e chi sono i principali clienti?
Rispetto ai primi anni in cui l’utilizzo delle anfore era appannaggio di pochi e di particolari progetti enologici, oggi assistiamo a una diffusione dell’utilizzo di questo genere di vaso vinario. Nella mia convinzione le nostre anfore sono attualmente il contenitore più “sincero” nella traduzione dell’uva in vino. Inizialmente il mercato era composto da realtà vitivinicole di nicchia, spesso micro realtà a conduzione biodinamica o in ogni caso prettamente artigianale. Con lo sviluppo tecnico delle anfore si è iniziato a comprendere che tale vaso vinario era in grado di ospitare tutte le fasi enologiche, dalla fermentazione all’affinamento. Grazie a un utilizzo meno specifico sono nate innumerevoli sperimentazioni da parte di realtà che fino ad allora non avevano considerato l’anfora quale strumento per accompagnare il processo dall’uva al vino. Grazie a questa rinascita, l’utilizzo delle anfore oggi è diffuso a livello globale in tutti i territori dove la vite trova dimora. Collaboriamo con circa 1400 produttori, dai più piccoli ai colossi della produzione enologica. Il nostro mercato principale è sicuramente quello francese; nella zona di Bordeaux abbiamo più di 500 referenze.
Quale dovrebbe essere la funzione di un’anfora e che studi avete messo in campo per migliorarne il processo?
In questi anni abbiamo dedicato molta attenzione allo studio del rapporto fra materiale ceramico e vino. Investiamo significative risorse nella ricerca e certificazione dei nostri vasi vinari, approfondendo tematiche fino ad ora mai considerate in enologia. Oltre a questo sforzo di ricerca raccogliamo presso la nostra sede esempi di vini provenienti dalle varie parti del mondo che hanno avuto l’anfora come contenitore. Nella nostra visione l’anfora deve permettere una vinificazione quanto più fedele alle uve. Quello che cerchiamo di fare è riuscire a non creare sovrastrutture o condizionamenti nel processo di vinificazione per consentire all’uva, al territorio ed al lavoro del viticoltore di arrivare nel bicchiere senza distrazioni. Accompagniamo questi processi attraverso una porosità controllata della parete ceramica, un’inerzia termica molto accentuata ed una serie di accorgimenti che rendono utilizzabile un’anfora all’interno di una moderna cantina.

A raccontarci del suo impegno in Sirio, l’anfora che punta alle stelle, Michele Bean.
Si legge spesso circa le origini e l’impiego di anfore nel mondo antico, ma come è cambiato questo contenitore al giorno d’oggi?
L’anfora originale, quella fatta a mano in terracotta e cotta in forni a legna, ha attraversato il tempo ed ha accompagnato l’essere umano difendendo gli alimenti da intemperie, animali, parassiti, ecc.. Sono poi cadute in disuso quando si è visto che i barili di legno erano più leggeri, potevano rotolare nelle stive delle navi oltre a poter essere riparate in caso di danneggiamento. Per contro, nel caso della conservazione dei liquidi, il legno specie se nuovo ne cedeva il gusto, un gusto al quale negli anni le persone si sono abituate. La moderna tecnologia della ceramica sta cambiando tutto, acquisendo conoscenza in termini di ossigenazione e controllo delle cessioni per risultare il meno invadente possibile e quindi ricercare la “non” modifica del gusto, beneficiando in termini di risultato finale, quindi beva.
A vista o interrata, di colore, smaltata o decorata. Esiste una gamma di prodotti e quali sono le anfore più richieste?
Io dico meglio non smaltate, non decorate e fuori terra. Fuori terra perché con gli scarichi a filo fondo si possono lavare e controllare con maggiore facilità. Le anfore più giuste come tagli per noi sono dai 300 ai 1000 litri massimo, in quanto troppo piccole sono antieconomiche e troppo grandi sono difficili da gestire.

Dall’alba di Josko Gravner ad oggi, una crescente fetta di produttori utilizza l’anfora nei propri processi di produzione. Non ci sono dunque limiti alla crescita di questo trend o esistono dei limiti nell’impiego di questo strumento?
Limiti? Dipende da cosa si cerca di fare. Se si vuole ottenere un rosso con la massima concentrazione, il legno certamente aiuta parecchio, sacrificando però l’identità varietale. Con l’anfora in ceramica si può puntare a verticalizzare i bianchi evitando di dare ulteriore schiena con il legno, specie in varietà a bacca bianca con poca acidità naturale.
Si può puntare a ottenere dei rossi meno grassi, più verticali e più puri nel gusto, senza interferenze. In entrambi i casi, sempre se fatti bene, rispetto al legno sono più facili da bere. Se devo comparare i due materiali in termini nautici, il legno è una barca a motore e la ceramica è una barca a vela. Gravner ha scelto anche l’anfora come identità del suo percorso; altri lo hanno seguito per semplice emulazione, altri ancora sono passati a un ulteriore sviluppo facendo prodotti completamente diversi.
Leggo che sei enologo e consulente, ma poi come ci sei finito a fare quest’altra attività?
È capitato, un po’ come capita la pioggia o la neve. Io sono letteralmente piombato in casa di Fabrizio Ratti, bussando alla porta con la scusa di presentarmi come nuovo vicino. Fabrizio ha una enorme esperienza di ceramica, falegnameria e design. Io sono la stessa cosa ma nel mondo del vino in cui ci lavoro dal ’98. Sirio Anfore è nata dall’unione di competenze, di conoscenze, di chi dopo Gravner ha preso altre strade riguardo l’uso delle anfore. La sfida è stata arrivare fino ad oggi con le nostre sole forze. La prossima sarà coinvolgere sempre più produttori nell’utilizzo del nostro sistema di vinificazione perché attratti dai risultati e non dalla moda. Ogni giorno siamo animati dall’entusiasmo della scoperta e siamo felici di vivere questo continuo processo di crescita.