Osteria Pavesi: tre fratelli e un sommelier americano, uniti dall’amore per il territorio e la semplicità

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Giacomo, Camillo, Giuseppe e Louis celebrano la campagna piacentina: “Valorizziamo materie prime straordinarie con vini rari senza rincari eccessivi”

di Alessandra Meldolesi

C’è un posto, in una suggestiva corte novecentesca a Gariga, nella campagna piacentina, dove si respirano profumi di altri tempi: salumi senza eguali in Italia, da tener testa agli spagnoli, una bomba di riso al piccione che deflagra nella memoria dei gourmet, la migliore della sua categoria, tortelli e anolini circumnavigati da storioni succosi, che rievocano l’epopea del Po. Come in una perpetua festa contadina, dove sembra di sentir starnazzare di nuovo fra i covoni. Dal 2014 è la casa dei fratelli Pavesi, Giacomo, Camillo e Giuseppe, rampolli di una stirpe di ristoratori che hanno dato inizio a una nuova storia. L’hanno battezzata “ostreria”, perché sono appunto nel numero perfetto: Giacomo, il maggiore, si occupa di tutto tranne che di cucinare, ovvero di sala, vini, materie prime, regia e comunicazione; Camillo segue il laboratorio che invasetta la celebre giardiniera; Giuseppe infine è lo chef. Da 8 mesi si è unito loro un bravissimo sommelier americano, Louis Turano, trapiantato per amore da un due stelle americano.

Giacomo: La base del nostro successo è la selezione della materia prima. Nel tempo abbiamo creato forti rapporti di fiducia con i fornitori, che ci danno solo il meglio. La trasformazione poi è attenta ma semplice, senza l’utilizzo di troppi ingredienti. Non vogliamo stupire né fare innovazione, ma trasformare la materia prima in piatti semplici e perlopiù espressi, emozionando il cliente. Ci ispiriamo alla cucina tradizionale piacentina, ma anche a tipicità di altre, belle regioni italiane, con attenzione ai grassi, alle cotture e alla digeribilità. Secondo noi materia, trasformazione semplice ma attenta, impiattati senza orpelli ma eleganti rappresentano la tendenza del futuro. In molti casi l’idea dei piatti viene da me, perché viaggio tanto, parlo con chef italiani e stranieri, ho contatti con personaggi importanti. Mi capita spesso di prendere in mano il telefono e chiamare qualcuno in cerca di suggerimenti. Se mangio bene, poi, mi informo sempre dei fornitori. E quando vedo un piatto che oltre a essere buono, è replicabile per semplicità di esecuzione e presenta una materia che trovo eccellente in zona, cerco di importarlo. Proviamo due o tre volte e magari centriamo la nostra interpretazione. L’ultima è stata l’insalatina di nervetti calda, non fredda come si usa a Piacenza. Sono andato a mangiarla con un cuoco nel posto dove ero stato meglio e poi ne abbiamo parlato. Oppure il cappon magro, che alla Brinca ho assaggiato con il coniglio e ho deciso di proporre con il pesce di acqua dolce. Il piatto nuovo arriva non per una scadenza naturale, ma perché ne abbiamo voglia o pensiamo che al cliente possa piacere. È un processo naturale. Ormai abbiamo la nostra identità e proseguiamo sulla nostra strada. Ed è ripetendo un esercizio nel tempo, che possiamo migliorare.

Giuseppe: Io studiavo per altro, facevo l’università per diventare odontoiatra, poi ho lasciato seguendo la passione e sono passato a cucinare in un paio di locali. Dopo un anno Giacomo mi ha chiamato all’Ostreria, dove lo chef precedente, mio fratello Camillo, mi ha insegnato i trucchi del mestiere. Per il resto sono autodidatta, ho imparato con i colleghi e lavorando sul posto. I piatti possono essere tradizionali, con piccoli tocchi personali su cui mi confronto con Giacomo, che talvolta dà il la per una novità, che io metto a punto.

Giacomo: Per molti anni abbiamo lavorato senza carta dei vini ed era un po’ una follia. Ora abbiamo 1500 referenze da tutto il mondo, spesso difficili da trovare altrove e a ricarichi contenuti. C’è molta attenzione per il Piemonte, che prediligo, e ultimamente la Toscana; i vini del nostro territorio, che sono più semplici; la Borgogna, il Rodano e la Loira, che Louis conosce molto bene. Rispetto al passato siamo meno fissati sui vini naturali, più sulle piccolissime realtà artigianali e su bottiglie che esprimano territorio, vitigno e annata, senza eccessi enologici. Cerchiamo la profondità anche sullo Champagne, che viene aperto sempre troppo presto, comprese le etichette di base. Tanto che indichiamo sempre la sboccatura. Invece ho un po’ un blocco sulle bolle italiane, cui spesso preferisco un rifermentato in bottiglia. Un’altra zona che sta prendendo piede è la Spagna, da cui non arrivano più solo rossi monumentali, ma anche vini divertenti a prezzi abbordabili. E la Germania, con pinot neri stupendi.

Giuseppe: Ho imparato ad apprezzare veramente il vino lavorando con Giacomo. Prima bevevo senza capire la vera qualità, poi mi sono fatto un palato un po’ modellato sui suoi gusti. Cerco di seguirlo negli assaggi e gli chiedo consiglio. Le degustazioni sono quasi sempre sul lavoro, per i nostri impegni anche familiari. Assaggiamo quando passa qualcuno a proporre dei vini, se vale la pena arriva e mi passa un calice. Sui piatti nuovi poi procedo prima del servizio, li assaggiamo insieme e ricalibriamo eventualmente la ricetta. Di solito dopo un paio di assaggi esce, ma al vino pensa solo lui.

Giacomo: Al calice proponiamo due pairing, quello del territorio, più semplice ed economico, e quello di ricerca. Ma c’è più richiesta di bottiglie, magari si inizia con due calici e poi si stappa. Sul percorso cerchiamo di individuare i piatti più significativi per poi individuare la bottiglia giusta. La prima domanda rivolta agli ospiti è se preferiscono restare sul territorio, in Italia o andare all’estero.

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Storione alla brace
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Alessandra Meldolesi

Nata a Perugia, Alessandra Meldolesi dopo gli studi e uno stage alla Comunità Europea ha scelto la cucina, diplomandosi alla scuola Lenôtre di Parigi e lavorando brevemente come cuoca presso ristoranti stellati. È sommelier, autrice di numerosi libri, traduttrice e giornalista specializzata da oltre vent'anni.

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