Dal recupero delle antiche tecniche georgiane al Verdicchio in Qvevri, il vignaiolo della Tenuta San Marcello racconta la sua avventura tra tradizione, agricoltura rigenerativa e sostenibilità
di Raffaela Cuccu
Se si parla di tecniche di vinificazione, la curiosità nei confronti dell’anfora è per gli appassionati di vino sempre tanta. Attorno al suo utilizzo rimane una forte aura di mistero e, diciamocelo, un po’ di irrisolta confusione dovuta a una sempre più frequente reinterpretazione in chiave moderna del suo utilizzo. Non molto tempo fa, ho avuto la fortuna di conoscere Massimo Palmieri, produttore di origine pugliese, trasferitosi prima a Milano e poi in terra marchigiana. Assieme a lui ho voluto approfondire una serie di tematiche legate all’impiego di questo prezioso recipiente che svolge nel pieno rispetto delle origini.
“Ho una forte affinità con le radici. Già in tenera età aiutavo i miei nonni a vinificare, completati gli studi in ambito tecnico ho poi proseguito su altre strade, ma il richiamo alla natura non ha mai smesso di proliferare in me. Nel 2006 io e mia moglie Pascale iniziammo a pianificare la fuga dalla grande città. Il 2007 fu l’anno d’inizio di questa meravigliosa, e un po’ folle, avventura” racconta con entusiasmo. “Partimmo da un casale abbandonato e 4 ettari di seminativo riconvertiti da noi in vigneto. Nel 2010 la mia prima vinificazione in solitaria con scarsissimi risultati. Dall’anno successivo iniziai ad imbottigliare. Sin dal concepimento, il filo conduttore fu l’eco-sostenibilità e il recupero dei sistemi agricoli del passato”.
Qual è stato il percorso che ti ha portato alla scelta dell’anfora? Cos’è cambiato da quando hai iniziato a utilizzarla?
Dopo i primi anni di vinificazione a basso intervento, nonostante i tanti riconoscimenti, non ero soddisfatto dei nostri vini, non ritrovavo l’energia e l’unicità del grande lavoro fatto in vigna. Alcuni profili aromatici li ritrovavo in altri vini prodotti a chilometri di distanza. Iniziammo quindi un percorso di transizione. Il mio primo pensiero fu rivolto alle fermentazioni spontanee, così come si era sempre fatto in famiglia.
A partire da questo momento, infatti, intrapresi un percorso di intima consapevolezza. Avevo rimesso in connessione la mia infanzia passata tra le sapienti braccia contadine dei miei nonni e il futuro che desideravo. Insomma, mi sentivo proiettato nel futuro anteriore. Questo percorso, dopo pochi anni, ha creato una frattura tra me e l’enologo poiché io chiedevo di spingerci sempre più verso il “naturale” mente lui mi frenava, rifiutandosi di affiancare la sua immagine al nostro percorso di agricoltura rigenerativa a tutto tondo. Inevitabilmente nel 2015 le nostre strade si dividono e, dopo infruttuosi tentativi di trovare un consulente che mi potesse aiutare in questa mia impervia strada, nel 2016 decido di andare a visitare la Georgia con un unico scopo: capire come mai in questa realtà si continuasse a far vino in anfora da 8.000 anni senza avvertire il bisogno di cambiare, come da noi, per abbracciare l’enologia moderna. Mai fu fonte più ispiratrice! Per diverse settimane ho girato il Paese con un accompagnatore georgiano, visitando 3 cantine al giorno e facendo a tutti le solite 40 domande. Fui letteralmente contaminato da questo approccio olistico nella vitivinicoltura.
Cosa rappresenta per te l’anfora?
Per me l’anfora rappresenta l’involucro più naturale dove elevare il frutto della terra. La chiave, in primis, è la terracotta e poi la sagoma che richiama le linee di forza dell’uovo, quale forma ideale che conduce alla metamorfosi.
Quale tipologia di anfora usi e perché?
Uso solo ed esclusivamente Anfore georgiane, che quando vengono interrate assumono il nome di Qvevri (ქვევრი).
Come le utilizzi? In quale fase di vinificazione è perché?
La vinificazione in Qvevri segue diverse strade, dipende tanto dalla Regione georgiana dove vengono impiegate. Noi seguiamo il metodo Kakhetiano che per la sua unicità ottenne nel 2013 il riconoscimento UNESCO come patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Il procedimento consiste nel pigiare l’uva che deve essere completamente matura, dirasparla parzialmente e introdurla nell’anfora Qvevri, rigorosamente interrata appunto, al fine di permettere che il flusso vitale della terra sia connesso con le radici della vite. Nei giorni successivi vanno praticate continue follature al fine di tenere le bucce sempre sommerse. Al termine della fermentazione l’anfora va poi colmata e tombata con un coperchio in pietra (o vetro), sigillandola con argilla impastata. Il vino resta a contatto con il suo frutto per almeno 6 mesi. Nel nostro caso seguiamo le fasi lunari e ne attendiamo 9. I vantaggi dell’interramento sono molteplici. Uno per tutti è l’interconnessione attraverso il suolo con le vicine piante di vite. Vi è poi la contenuta temperatura di fermentazione che rimane costante grazie alla facilitata dispersione del calore attraverso la terra circostante. Il risultato è un vino finito, limpido, cristallino ed organicamente stabile.
Ti senti già intimamente realizzato? Ambisci al consolidamento del tuo stile che comunque sembra già chiaro, o prevedi alcune ulteriori modifiche?
Al momento la soddisfazione è tanta. Quando penso da dove siamo partiti, mai avrei immaginato di arrivare al punto dove siamo oggi. Il percorso di transizione non è stato per nulla facile, tanti errori e tante paure di sbagliare ormai sono un lontano ricordo. Nel primo periodo di transizione molte volte sono stato tentato di mollare tutto e ritornare al classico “protocollo enologico” usato i primi anni. Poi sono arrivati i primi risultati incoraggianti proprio dall’uso delle anfore, ed è a loro che devo tutto quello che oggi abbiamo imparato nelle vinificazioni naturali. In futuro mi piacerebbe contribuire, insieme ad altri vignaioli, a diffondere questo metodo ancestrale di far vino. Sarebbe una grande perdita antropologica se queste sapienti conoscenze, frutto di millenni di storia, venissero abbandonate per comodità enologica. La fatica di vinificare in Qvevri è tanta, ma tanta davvero, però il risultato finale è talmente meraviglioso che fa svanire ogni più ragionevole dubbio.
Il Verdicchio, oltretutto, si presta tantissimo alla vinificazione in anfora. Diversi colleghi georgiani degustando il nostro Cielo Sommerso (verdicchio 100% e 9 mesi di Qvevri) sono rimasti esterrefatti dalla bellezza di questo vino. Mi hanno tutti confermato il grande potenziale di questo vitigno. In futuro vorrei sempre più migliorarmi e, con l’aiuto del giovane e talentuoso enologo Fabio Roveda entrato in azienda da laureando circa 3 anni fa, sono certo che porteremo il Verdicchio ai massimi livelli mai raggiunti prima.
Cosa dà l’anfora? Cosa toglie? Cosa esalta?
Qui la questione diventa complessa come è complesso il risultato della vinificazione in anfora. Per la magia che tutto ciò rappresenta per me, davvero non vorrei portarmi sul solo confronto tecnico e sensoriale. I fondamentali espressivi di un terroir sono un insieme di elementi che concorrono al risultato finale. In primis l’uomo che è interprete e parte integrante di quei luoghi e di quel preciso ecosistema, fatto di fattori energetici ambientali, vocazione climatica, pedologia dei suoli e tradizioni storiche locali che costituiscono un insieme di fattori che l’anfora riesce a rispettare senza alterare nulla. È per questa ragione che mi limiterei a riportare il vino nel suo naturale profilo umanistico. Qui nelle Marche si fa vino già dai tempi dei Piceni, ci sono ritrovamenti di anfore di epoca preromana, risalenti a circa 3.000 anni fa che dimostrano la vocazione di questo territorio alla vitivinicoltura. Questa è una storia incancellabile che ha accompagnato le popolazioni locali. L’enologia moderna non può non tenerne conto e non ha nessun titolo per cancellarla.
Esistono dei sentori precisi che oggi ricolleghi all’utilizzo dell’anfora? Quali i sentori che rimandi invece con più chiarezza ai vitigni e del territorio?
Unicità espressiva, ricchezza del sorso, profondità e l’esaltazione delle caratteristiche del vitigno sono i maggiori fattori distintivi dell’anfora rispetto ad una classica vinificazione in acciaio o in legno. I sentori più intriganti ti riportano a note di miele, torba, malto tostato e poi spezie, accompagnate da vibranti sentori di incenso. Oggi purtroppo con le vinificazioni moderne in iper-riduzione, l’uso dei lieviti selezionati e gli additivi enologici non parlerei più di rivelazione del vitigno o del territorio, ma al contrario di espressione enologica.
Chi sono state le persone e le personalità che ti hanno avvicinato all’anfora? Come ti hanno influenzato?
Nel mio percorso ci sono stati tantissimi incontri che mi hanno dato stimoli profondi ed impareggiabili dubbi. Nominarne solo alcuni sarebbe ingiusto. Comunque non posso non citare i tanti vignaioli georgiani con cui abbiamo legato una forte amicizia, dai quali ho imparato tanto e sono sempre pronti ad aiutarmi o a raggiungermi durante la vendemmia per vinificare insieme. In particolare Tornike Muradashvili e Giorgi Aladashvili e poi c’è il mio caro amico produttore di anfore in Imereti Levan Kapanadze con Mate Zurkua.
Che significato ha per te l’anfora in termini non solo di utilizzo, ma anche filosofici?
Quello che avviene in anfora rimane qualcosa di davvero inspiegabile con le moderne conoscenze. Se si volesse creare in cantina un risultato simile servirebbero energie e sforzi sovraumani. In anfora invece avviene tutto naturalmente. La terracotta è fatta dalla stessa materia del suolo, concettualmente le radici delle piante di vite rimangono interconnesse col proprio frutto che giace nel grembo della madre terra fino al completamento della fermentazione. Quando le piante perdono le foglie, riportano tutta la loro energia vitale nelle radici ed è lì che incontrano nuovamente il proprio frutto inviando flussi energetici vitali che stimolano il vino alla piena e sana maturazione.
Raffaela Cuccu
Laurea in Scienze dei Beni Culturali, Master in Comunicazione per il Settore enologico e il Territorio, Sommelier. Lavora nel cuore della Valpolicella presso l’ufficio marketing di una cantina vitivinicola.