ragazzi che brindano

Trend del momento, bere poco o zero alcol

Tempo di lettura: 3 minuti

Il tema impazza anche su riviste mainstream di lifestyle come Vogue. Le ragioni sono tante: dal vezzo di moda alla necessità di fare marcia indietro dopo i binge drinking da Covid.

di Francesca Ciancio

Sarà il clima pre-autunnale per nulla confortante che ci attende – vedi alla voce inflazione, caro bollette e nuove elezioni – la malinconia di molti per le ferie appena terminate, per il burnout che ci affligge dall’inizio dalla pandemia – ma nel mondo del beverage non si fa che parlare di low alcol o di zero alcol, di gradazioni alcoliche del vino che sembrano più quelle di una birra, di Dry January che per alcuni si estende agli altri 11 mesi dell’anno. Ci si mette talvolta anche la “complicità” di chef e ristoranti di grido che rinunciano all’abbinamento piatto-calice a favore di un “maggior focus sulla ricetta” (ma potremmo dire anche per calmierare le spese di cantina). Insomma, l’argomento è caldo e si inserisce in un trend in cui il calo dei consumi di vino – al di là dei saliscendi pre o post pandemia – è inevitabilmente strutturale.

Non sorprende quindi trovare sulla stampa generalista di lifestyle articoli che trattino il tema. Così è su Vogue Uk con un lungo articolo che si intitola “Has Everyone Stopped Drinking?” di Tamar Adler. L’elenco dei “pentiti” pare lungo e nel pezzo si citano chef una volta “dissoluti” come David McMillanSean Brock, ex rispettivamente di Joe Beef e Husk, che hanno detto no all’alcol. Modelle e attori come Bella Hadid, Kate Moss, Katy Perry, Naomi Campbell e Brad Pitt (tra l’altro proprietario di un’azienda di vino in Provenza) hanno tutti gettato la spugna. Dal canto loro i locali hanno fiutato il “business” ed ecco proliferare tutta una serie di piccoli bar analcolici chic in cui andare, come Getaway a Greenpoint, Brooklyn; Gem Bar a Pitman, New Jersey; Senza Barad ad Austin, in Texas; la Vergine Maria, a Dublino. La società di dati Nielsen d’altronde afferma che il settore delle bevande a basso contenuto di alcol e analcolico è cresciuto del 506% dal 2015.

Ovviamente, smettere di bere o bere meno – come giustamente viene sottolineato su Vogue – non è solo un vezzo di moda, ma ragioni inappuntabili giocano a favore della scelta: il consumo di alcol è stato collegato a malattie del fegato, malattie cardiache, cancro, ipertensione, ictus, demenza, ansia, depressione e invecchiamento precoce. Circa 61 milioni di americani parlano di binge drinking almeno una volta al mese. L’abuso di alcol è sette volte più comune dell’abuso di antidolorifici. Altro dato interessante arriva dal mondo editoriale, dove, come scrive la Adler, negli ultimi due anni sono stati pubblicati decine di libri di ricette utili ai sobri amanti dei cocktail. Per non parlare di Instagram, letteralmente esploso, dove puoi trovare vini analcolici, liquori, aperitivi, amari e spritz in lattina, spediti direttamente a casa da negozi online dai nomi esplicativi come The Zero Proof e No & Low. Non vi è tuttavia un’equivalenza tra bere con poco o zero alcol e risparmiare. Anzi, si legge nell’articolo, smettere di ordinare un cocktail o un calice non è affatto cheap. Il vino analcolico costa tra $ 15 e $ 30 (da 12 a 25 euro circa) e l’aperitivo medio in lattina no alcol funziona come un IPA.

Vi è poi una digressione storico-culturale interessante. La giornalista cita Nietzsche che nel 1882 scriveva: “Chi racconterà mai l’intera storia della narcotica? È quasi la storia della cultura”. La storia dell’alcol inizia tra il 6.000 e il 4.000 a.C in Mesopotamia e in Turchia e alla fine si diffonde a ovest. Gli antichi egizi bevevano più birra che vino grazie alla prolifica coltivazione del grano; i romani bevevano più vino che birra perché il clima temperato era favorevole alla coltivazione della vite. Nel 1620, i pellegrini sbarcarono a Cape Cod invece che nella Virginia del Nord perché stavano finendo la birra. Periodi di temperanza, promossi da Susan B. Anthony, Walt Whitman e dal proibizionismo si sono alternati all’esaltazione del bere (vedi William Faulkner, John Steinbeck, Henry Ford II).

Venendo ai giorni nostri va detto anche che la maggior parte dei regimi dietetici alla moda dell’ultimo decennio, che si tratti di digiuni con succhi di frutta o Atkins o Keto o Paleo o low-carb, lasciano poco spazio all’alcol. Inoltre, l’alcol non è più l’unico modo legale per alterare il proprio stato mentale. I dati mostrano che la legalizzazione della cannabis negli Stati Uniti ha avuto un certo successo. E anche l’essersi concessi più alcol durante il duro periodo del Covid ha mostrato la necessità di una marcia indietro. Ecco allora la categoria dei ready to drink, premiscelati e frizzanti, pronti per l’uso in bellissime lattine e bottiglie, con le indicazioni per aggiungere seltzer o tonica. Ognuna di queste è composta da un mix di succhi di frutta, acqua, erbe aromatiche, radici e altri prodotti botanici, molti dei quali sono usati nella fitoterapia tradizionale. Alcuni di questi RTD contengono i cosiddetti “adattogeni”che come spiega alla giornalista Joel Evans, direttore del Center for Functional Medicine di Stanford, nel Connecticut, sono composti che aiutano il corpo ad adattarsi ai cambiamenti. “Ciò significa“, spiega, “che quando gli ormoni sono bassi, gli adattogeni li aumentano. Lo stesso composto può stimolare diversi recettori e i recettori determinano se il corpo deve adattarsi nell’aumentare o diminuire i livelli ormonali”.

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