Tenuta di Fessina: la nuova generazione fa grande la Sicilia

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Jacopo Maniaci racconta il progetto di Silvia Maestrelli e Roberto Silva: “Il futuro del vino è legato al recupero della semplicità e del sintetismo”

di Camilla Rocca

Classe 1990, Jacopo Maniaci è oggi parte della compagine societaria di Tenuta di Fessina, una delle più prestigiose realtà dell’Etna, un microcosmo che coltiva, raccoglie e vinifica uve che maturano su versanti diversi del vulcano e solo in zone storiche di riferimento. Partendo da nord nel 2007, con la prima vendemmia di Nerello Mascalese, la Tenuta si è estesa poi a sud ovest nel 2009 ed infine ad est, nel comune di Milo, a partire dal 2012. Un mosaico che rispetta la memoria di ciascun vigneto e delle varietà che vi si esprimono al meglio. Una tavolozza di terroir tra i muretti a secco e il mare cobalto sullo sfondo che circoscrive la sagoma della DOC Etna che, come una mezzaluna, interessa i tre versanti. 

Laureato all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, nelle Langhe, Jacopo Maniaci intraprende un master in Wine Technology & High Quality Products. Nel 2015 fonda con la sua famiglia una sua azienda, la Fattoria San Pio, un presidio Slow Food, per l’allevamento del maialino nero dei Nebrodi. Dopo un’esperienza in Langa e in una cantina del Ragusano, nel 2015 incontra nel suo percorso professionale Silvia Maestrelli, l’enologa e produttrice scomparsa nel 2022 che ha creato Tenuta di Fessina. Li presenta un amico in comune, Silvia sta cercando un direttore generale. In qualità di direttore generale prima e di amministratore delegato dal 2021, Jacopo Maniaci ha accompagnato la crescita di Tenuta di Fessina sia in termini di valore che di volumi. Nel 2024 Jacopo diventa parte della compagine societaria di Tenuta di Fessina insieme a Lavinia Silva, figlia di Silvia Maestrelli e Roberto Silva, entrambi scomparsi prematuramente, e a Stefano Silva, cugino di Roberto Silva.

 

Che cos’è la next generation nel mondo del vino secondo te?

Il futuro del vino è legato al recupero della semplicità e del sintetismo. Il mondo del vino è sovraccarico di tecnicismi, di temi che invece di avvicinare il consumatore rischiano di allontanarlo. Bisogna ricordare che il vino esiste in quanto funzione del convivio, della condivisione e della semplicità. Un grande vino può coesistere anche insieme ad una comunicazione più snella, diretta e aperta a tutti. È giusto essere chiari e tecnici, ma bisogna farlo in modo comprensibile e soprattutto accessibile.

Perché è un tema così forte in questo momento?

Perché in questo periodo storico fatto di apparenza, di sovrastrutture, di disinformazione bisogna abbandonare un modello vetusto e desueto e bisogna riabbracciare la vera natura delle cose. Questo accade nella vita come nel vino. I nostri vini devono parlare una lingua comprensibile, seppur fine. Si può essere eleganti e semplici allo stesso tempo. L’esubero tende a stancare, la troppa comunicazione crea noia, distrazione. Le icone abbracciano tutti, non sono la nicchia.

Sostenibilità nel vino, importa davvero per la Next generation?

Basta che sia vera. Ci troviamo in un momento in cui gli investimenti vanno fatti mettendoci la faccia. A volte anche usando fondi privati pur di sistemare qualcosa di pubblico. Io sono siciliano, la mia terra avrebbe bisogno di un’ondata di energia risolutiva, di una rivoluzione. Noto con piacere che la mia generazione è sicuramente sensibile al tema, vista la condizione mondiale, migliorare è un obbligo.

Quanto è importante avere oggi in azienda un volto che racconti il brand?

Direi che è di cruciale importanza. Si possono fare vini eccezionali, ma senza uno storytelling solido e centrato è difficile apparire comprensibili. A parte la qualità, la differenza la fa il sacrificio, la disponibilità a girare i mercati, a stare tanto fuori a comunicare. L’esperienza aiuta in questo, ma credo che comunicare sia una dote innata. Si può affinare, ma empatici si nasce. Molti dei più grandi vini al mondo hanno dietro personalità abbastanza istrioniche. Non è un caso.

Possiamo dire che tu sei il volto della Next generation della tua cantina?

Siamo un’azienda molto giovane, il socio più anziano ha appena 50 anni, Stefano Silva, la più giovane appena 23, Lavinia Silva. Io sono un membro adottivo in famiglia e preferisco che il lavoro parli per me. Sono estremamente affezionato al progetto sia professionalmente sia emotivamente e credo che l’adagio sia l’anticamera della pigrizia. Non voglio essere nostalgico, ma io quando penso a Fessina penso a Silvia Maestrelli e Roberto Silva. Io sono un prolungamento, un arto addizionale del loro sogno. Siamo qui per continuare. Tutti insieme.

C’è stato qualche scontro generazionale da quando sei entrato in azienda?

Certamente, soprattutto nel modo di fare certe cose. Ma più che di generazioni parlerei di caratteri. Poi cambiano anche i tempi. Io sono più sottrattivo nell’accezione di fare vino, prima si ragionava più per estrazioni. Il modo di bere è cambiato, così cambiano anche i programmi, i progetti, le idee. Tuttavia c’è da dire che una grande idea e un grande vino non subiscono il fascino della moda. Quindi bisogna adattarsi, senza cambiare l’anima delle cose. Sennò si diventa schiavi del mercato e si perde il fulcro di un’idea, che non deve vivere di compromessi. Magari per una generazione precedente è più difficile abbandonare certi crismi, soprattutto se si sono fatte cose enormi seguendoli.

Cosa vorresti dire agli altri vignaioli? Un consiglio su come migliorare che noti spesso nei colleghi?

Fate qualcosa di vero per voi stessi, oltre tutto l’impegno e il sacrificio. In un mondo che ci richiede continue performance e alti rendimenti, a volte ci si dimentica di ribellarsi, di riprendere una vecchia passione, di togliersi uno sfizio. Siamo continuamente sotto esame, sotto pressione. C’è troppo margine da recuperare rispetto a quanto non fatto in precedenza. A volte fermarsi è bello e fa bene all’anima.

Importatori, distributori, commercianti ti hanno considerato meno in quanto giovane? E all’estero?

Forse all’inizio. Perché ho cominciato che ero appena laureato. Ormai sono passati più di dieci anni. Oggi ne ho 34 e mi sembra tanto, ma rapportato a una vita, sono veramente agli albori. Soprattutto rapportato al mondo del vino, che è un universo talmente espanso che sentirsi pronti è una stupidata colossale. Però capisco la sorpresa, magari di un grande distributore a trovarsi uno con quella faccia davanti. È come se su un volo aereo, magari intercontinentale, accomodandosi nella propria poltrona si intravedesse entrare un pilota bambino. Con cappello e giacca larga sulle mani. A chiunque prenderebbe un colpo.

Qual è il vino della cantina che meglio rappresenta la next generation?

Difficile a dirlo. Potrei citare le contrade, i cru, le vigne alte, forse potrei dire A’Puddara, che è il nostro fiore all’occhiello. Il mio vino è Erse Rosso. Che è il nostro vino d’entrata. Perché è figlio di tutta la vigna, uva rossa, bianca, Mascalese, Cappuccio. Dentro c’è tutto. È inclusivo, se ne frega. Si vendemmia in cassetta tutto insieme. Come facevano i nostri nonni in Sicilia. Ma la tecnologia è moderna. Secondo me è il vino che è cresciuto di più. Insieme a noi. Ma con un occhio al passato. Alla tradizione.

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Camilla Rocca

Una passione per il mondo del vino che parte dalle origini, si è allargata all’enoturismo e ai racconti delle persone, di quei volti, quelle mani, delle storie che sono dietro alla vigna

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