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Il pranzo della domenica secondo Don Pasta: storie d’amore, cibo e memoria

Tempo di lettura: 3 minuti

“Mangia che sei sciupato” e altri aneddoti, ricette e tradizioni di un paese che si è fatto a tavola

di Titti Casiello

È un goloso diario di viaggio “Il pranzo della domenica” di Daniele De Michele, in arte Don Pasta, edito in Italia da Il Saggiatore. Non un libro pieno di ricette, ma un racconto denso di aneddoti e ricordi legati a quelle domeniche che avevano il gusto di casa.

“Mangia che sei sciupato”, qualsiasi nonnina avrebbe accolto suo nipote in casa con un piatto abbondante di lasagne o di tortellini in brodo, molto più che un semplice cibo, ma nutrimento per l’anima.  E Don Pasta nel suo libro decide, allora, di ripercorre quella stessa frase in un viaggio tra le cucine di montagne, dagli alpeggi trentini e veneti fino all’Aspromonte calabrese a quelle di mare dalle coste liguri agli anfratti campani e siculi.

Lo fa in una cucina dove l’italiano non esiste, fatta di dialetti, di gesti, del quanto basta e del giusto un pizzico “che incontra in comuni o paesi vicini anche versioni diametralmente opposte, perché una ricetta è un’entità mutevole, non è inventata da nessuno e non ha una data di nascita, ma si trasforma di famiglia in famiglia e di epoca in epoca”.

E allora guidato dalla frugalità e dall’ingegnosità di quelle mani femminili segnate dall’agricoltura, con il pane raffermo che diventa pappa al pomodoro o gli avanzi della cena prima che rivivono a pranzo tra polpette o panzanelle, De Michele recupera le tracce di un’Italia dal Secondo dopoguerra in avanti sulla via di regole non scritte, tra passaggi che diventano una costruzione personale, imparati dalla nonna e poi rivisitati dalla mamma.

“Quando sono andato a trovare queste nonnine, spesso suocere di amici o di conoscenti, mi trattavano da nipote, qualcuno di famiglia da nutrire”, ed è bastato, allora, il tempo di un sorriso per iniziare a scoprire le ricette di un’Italia operaia, con Ornella che, in Irpinia, impiega una giornata intera per fare il suo babà e che ad ogni passaggio pensa ancora al suo Mario che non c’è più, ma che “sta sempre con me. C’era amore veramente”, come si legge tra le pagine del libro che la vedono protagonista, come quello stesso che Pierina in Piemonte mette nel risotto cucinato per suo nipote Rodolfo “quando viene a mangiare da me, arriva il sole” o nell’amore che, in Valle d’Aosta, univa Carmen e suo marito mentre cucinavano le foglie di cavolo con le frattaglie o l’insalata di tarassaco, raccolto appena la neve si scioglieva.

Ne viene fuori che è impossibile censire asetticamente un piatto ed è per questo che il “Pranzo della domenica” è un libro senza ricette, ma intriso di profumi e di sapori tra storie di vita che si intrecciano a storie di cibo.

E tra questi sono compresi anche gli odori della nostalgia, di quel tempo che stenta a ritornare e che, anzi, non ritornerà mai più. Quello delle uova appena prodotte dalle galline, del burro fresco, della lattuga dell’orto e del pesce del vicino golfo. Tutto era cucinato in modo semplice, un aglio selvatico o un agnello al pascolo non avevano bisogno di null’altro, mentre oggi ci si arrovella sulle sovrastrutture per camuffare quei 40 centesimi dei pelati allo scaffale, dei pani confezionati e delle monoporzioni imbottite di conservanti 

“In passato avevi una scelta, se non eri ricco non dovevi per forza scegliere solo il meno peggio, perché avevi un altro elemento a tuo favore: il tempo, e l’abilità stava nel saper fare qualcosa di buono con quello che si aveva”. È così che dalla necessità sono nate le virtù “tutti dovevano essere bravi e tutti lo sono stati. Poi tutto è cambiato ed è lì che la modernità ha fatto saltare il concetto di accessibilità degli ingredienti e della conoscenza. Il mio lavoro si è occupato del prima, del dopo e di cosa si sia rotto, con e attraverso lo sguardo di chi quel prima lo ha vissuto”. 

Il pranzo della domenica non è da confinare nello scaffale sezione cucina, ma neppure in quello della narrativa leggera, forse è da tenere lì, a vista d’occhio e aprirlo ogni volta che si sente la necessità di ritornare a qualcosa di autentico.

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Assunta Casiello

Classe ’84, avvocato. Dopo una formazione all’AIS Milano, è diventata giornalista pubblicista e oggi collabora con alcune riviste e guide di settore.

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