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Il menu della felicità: quando il cinema racconta l’inclusione senza retorica

Tempo di lettura: 2 minuti

Nel film diretto da Hervé Mimran, ispirato al vero ristorante parigino, alcuni giovani autistici e uno chef rinnegato trovano nella ristorazione parigina non solo un’opportunità di lavoro ma una vera e propria occasione di riscatto.

di Titti Casiello

“Parlare con i clienti, sorridere sempre, vedere che vanno via contenti e tornano di nuovo da noi” è così che Louane (Angélique Bridoux) ottiene il posto da cameriera a “La belle ètincelle” di Parigi.

“Servire coppe di champagne ai clienti” è, invece, quello che più ama fare Lucas.

Sono alcuni dei ragazzi con disabilità cognitive protagonisti del film “Il menu della felicità” diretto dal regista francese Hervé Mimran.

La pellicola è un bell’insegnamento che spinge a guardare la realtà senza indossare gli occhiali di una miopia retorica, dove le diverse abilità non vengono viste né come un minus né come un plus, semplicemente sono e come tale dovrebbero essere guardate.

Dovrebbero, perché spesso la propaganda ha fiato corto e Virginie (Melanie Doutey), la protagonista del film, è stanca di vedere che suo figlio Noé (Gauthier Gagnière) non riuscirà mai a coronare il sogno di diventare uno chef.

La sua displasia l’ha portato a perdere già troppi lavori, l’ultimo solo perché si era rifiutato di mettere del caprino in un sandwich.

Non dare il pesce a qualcuno, ma insegnagli a pescare. È questo che pensa, allora, Virginie quando decide di rilevare il ristorante di Gérard (Lionnel Astier), in procinto di abbassare la saracinesca per sempre.

L’idea è creare un ristorante inclusivo affinché Noé e altri ragazzi come lui possano avere la promessa, spaventosa e terribilmente desiderata, di giocare ad armi pari nella società del lavoro.

A dirigere la brigata il grande chef Philippe Lamark (Bernard Campan) in cerca di una riabilitazione di immagine dopo quel video virale che gli è valso il licenziamento dal Trianon Palace. Preso da una rabbia accecante per aver perso la stella, inveisce furibondo contro la sua brigata ed è bastato un click per essere fuori dall’intero mondo gastronomico.

Cinico e burbero lui, con difficoltà a percepire le emozioni Noé, questa strana coppia diventa vincente ai fornelli tra il taglio di un nasello e la preparazione di una salsa bernese, uno dei tanti cavalli di battaglia di Lamark, rivisitato da Noe’, che sostituisce l’aceto di vino con quello di cherry e aggiunge un po’ di sidro per correggere l’acidità.

Il ragazzo si conquista così la fiducia di Lamark diventando lo chef delle salse, ma nel mentre le storie di inclusione fuori dai fornelli vivono in sala con un servizio che ogni giorno migliora e si perfeziona superando anche il giudizio severo del critico gastronomico François-Régis Guadry (interpretato da sé stesso) e raggiungendo la stella verde della prestigiosa guida “per una cucina etica e responsabile [..] e l’inclusività mostrata nelle assunzioni”.

Il film è liberamente ispirato al ristorante Labelle étincelle che si trova a Parigi, nel 15esimo Arrondissement, e alcuni degli attori del film lavorano stabilmente nel locale. Tra questi c’è anche Pierrot Goldstein, figlio del produttore del film Fabrice Goldstein che ha voluto raccontare, coi toni di una commedia leggera, quello che tutti guardano ma nessuno riesce a vedere davvero.

 

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Titti Casiello

Classe ’84, avvocato. Dopo una formazione all’AIS Milano, è diventata giornalista pubblicista e oggi collabora con alcune riviste e guide di settore.

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