Roberto e Nicola raccontano la loro cucina dove il pesce è religione e la carta vini si evolve senza seguire le mode
di Alessandra Meldolesi
Se c’è un luogo dove il pesce fa la parte del leone, è Da Romano a Viareggio, indirizzo di riferimento fin dal 1966. In quell’anno due ragazzi innamorati, Franca e Romano Franceschini, diedero forma al loro sogno, aprendo un ristorante da perfetti autodidatti. La cuoca iniziò a guardarsi intorno, mentre il marito dirigeva la sala e provvedeva agli acquisti. Ed è stato proprio al mercato, dove entrambi si approvvigionavano del miglior pescato tirrenico, che si è imbattuto in sua maestà Angelo Paracucchi, grandissimo cuoco umbro di stanza al Motel Agip di Sarzana, autore di una rivoluzione italiana destinata a travolgerli.
La cucina di Romano si fece presto notare per il rispetto pressoché religioso verso la freschezza della materia, accompagnata sul piatto da cotture millimetriche, con la complicità di una verdura di stagione. Sublime semplicità che per decenni ha cozzato con l’egotismo delle grandi cucine, ostinata e contraria, a suo modo entusiasmante per gli esiti e la coerenza, frutto di un sapere assoluto. Nella dinamica si è inserito naturalmente il figlio Roberto, nato nel 1969, che durante gli studi già dava una mano in sala, “perché mia mamma in cucina non mi ci ha mai voluto”. Dopo aver mandato avanti dal 1994 al 2001 un’enoteca con cucina, dove si è fatto le ossa sull’ospitalità, è infine rientrato nel ristorante totalmente ristrutturato, di cui aveva continuato a curare la cantina. “Allora c’era mio padre a tempo pieno. L’ho affiancato, portando la mia competenza. Ed è ancora qui con noi, il primo che si alza il mattino e l’ultimo che va a casa la sera. Si occupa dell’accoglienza e dei clienti al tavolo, soprattutto compie gli acquisti ogni mattina, in base ai pizzini preparati dalla cucina la sera prima. La mamma invece si è dovuta ritirare cinque anni fa per un problema di salute ed è arrivato il nuovo chef, Nicola Gronchi”.
Gronchi: Conoscevo Romano fin da bambino, perché sono di Carrara e i miei genitori erano clienti affezionati. Poi ho iniziato a frequentarlo per conto mio. Nel frattempo facevo la mia gavetta per trattorie, dalla Bianca al Quinto Elemento, fino all’Osteria del Muraglione, dove ho capito di dover compiere una scelta e ho iniziato le mie esperienze per stellati. Ci sono stati il Tivoli di Cortina d’Ampezzo e la Baita Piè Tofana, poi la Parolina di Iside De Cesare e per suo tramite l’apertura della Barcaccia a Roma. Sono entrato come capopartita ai primi alla Locanda del Pilone, sotto la consulenza di Cannavacciuolo, dove sono diventato secondo. Eravamo chiusi tre mesi l’anno, che ho dedicato a stage da Crippa e al Devero di Enrico Bartolini. Una concomitanza di circostanze ha quindi fatto sì che il terzo anno lo chef giapponese partisse poco prima della stagione del tartufo, cosicché la proprietà ci ha chiesto di chiudere la stagione. E in quell’occasione ho conosciuto la famiglia Vaiani, proprietaria del Bistrot di Forte dei Marmi. Io volevo riavvicinarmi a casa, loro mi hanno proposto di affiancare lo chef Daniele Angelini, per portare una ventata di aria fresca, e ho accettato. Ma anche lui a stretto giro ha lasciato e mi sono trovato a dover prendere il suo posto, confermando la stella. Dopo tre anni mi è arrivata un’altra offerta: l’apertura di Villa Grey, dove in sei mesi abbiamo conquistato un’altra stella. Nonostante qualche differenza di vedute, avrebbero voluto che restassi. Ma io ero già in parola con i Franceschini ed è il quinto anno che sono felice, qui da Romano. La transizione è stata molto graduale, per una forma di riguardo verso la clientela storica. Venivamo da una cucina semplice e di prodotto, la mia è sempre di prodotto, ma ha basi classiche e passaggi tecnici, che non pregiudicano la riconoscibilità dell’ingrediente. Da subito abbiamo affiancato un menu di piatti storici, comprendente l’insalata di mare e i calamaretti ripieni, che nel tempo si sono leggermente evoluti, a una degustazione creativo e spinto nel gusto, con più acidità e più amaro. E continuiamo su questo duplice binario.
Franceschini: In tutto questo la nostra carta dei vini non ha subito stravolgimenti, perché ha sempre poggiato su ottime basi. Ma è bello aggiornarla in base ai nuovi vini, al ricambio della clientela e ai suoi gusti sempre diversi. Cerchiamo di adeguarci ai desideri senza inseguire le mode, tanto rapide nel deflagrare quanto fulminee nel dileguarsi. Mentre i grandi classici spesso si evolvono spontaneamente grazie all’intelligenza dei produttori, trovando nuovo slancio. Oggi abbiamo circa 1200 etichette, con tanto spazio per le mie passioni: lo Champagne, che è il vino delle feste, e il mio sangiovese toscano, nelle sue interpretazioni più nobili, dal Chianti Classico a Montalcino. Ultimamente anche un po’ di Germania, una selezione di vini ‘naturali’, con poca chimica, e macerati del Collio Goriziano. Il wine pairing in Italia è invalso negli ultimi dieci anni, personalmente l’ho provato per la prima volta all’Enoteca Pinchiorri, che ha funto da apripista. Noi offriamo questa opportunità da una decina d’anni e da quando c’è Nicola approntiamo percorsi chiamati ‘viaggi’ per i clienti di fuori, che possono scoprire etichette locali, provenienti dai Colli di Luni, dalla Lucchesia o dai Colli Apuani. Ma per chi lo chiede, spaziamo a livello regionale, nazionale o internazionale. Ci lavoriamo una volta al mese, quando decidiamo che è il momento perché si stanno esaurendo alcuni prodotti, soprattutto vegetali. Dopo molte prove in cucina, assaggiamo i piatti con i ragazzi di sala e ci confrontiamo su cosa possa essere giusto abbinare. Però io non voglio fare la coda di pavone, preferisco ascoltare il cliente per cercare di soddisfarlo.
Gronchi: Personalmente amo bere e cercare di capire il bicchiere; sono sicuramente acerbo, ma quando vedo gli abbinamenti, partecipo a serate con verticali importanti o qualcuno semplicemente stappa una bottiglia pregiata, mi metto in ascolto. Nel menu cerco sempre di compiere stacchi nel sapore, questo mette il sommelier nelle condizioni di fare le sue scelte. Le prime portate sono fresche e acide, poi il gusto cresce fino all’ultimo antipasto, una seppia novella alla brace col suo fegato, servita con verdure di stagione, dal radicchio alle cime di rapa, a tendenza amara. Ma io mi fido ciecamente, ascolto. Poi con Roberto e i ragazzi beviamo insieme per le feste: per qualsiasi compleanno, anniversario o uscita in guida scatta il brindisi.
Franceschini: Ci sono anche tanti produttori amici e clienti, come Stefano Legnani e la Lucca biodinamica, che ha portato nuova linfa in una zona storica. Dopo aver cercato il dialogo con l’ospite, è bello provare a fargli scoprire sensazioni diverse e vini dalla personalità spiccata. Cerco di tenermi aggiornato, ma pretendo sempre pulizia e non accetto scorciatoie. La naturalità non giustifica i difetti. Se ho scelto un vino, è perché mi è piaciuto. E non c’è cosa più bella di far assaggiare l’espressione del territorio che ho camminato nel mio ultimo viaggio. Oggi la tendenza è a cercare la bevibilità e un grado alcolico contenuto, con una grande attenzione alle temperature, che in Italia è sempre un po’ mancata. Poi il cavallo cerchiamo di legarlo dove vuole il cliente e se chiede il secchiello del ghiaccio, lo accontentiamo; magari dopo un po’ ripasso per domandare se serve ancora, senza fare il catechista.
Alessandra Meldolesi
Nata a Perugia, Alessandra Meldolesi dopo gli studi e uno stage alla Comunità Europea ha scelto la cucina, diplomandosi alla scuola Lenôtre di Parigi e lavorando brevemente come cuoca presso ristoranti stellati. È sommelier, autrice di numerosi libri, traduttrice e giornalista specializzata da oltre vent'anni.