La presentazione del testo è stata l’occasione per un dibattito sul ruolo delle denominazioni di origine. Matilde Poggi: “preoccupati per il passaggio di competenze sulle denominazioni dalla Commissione agricoltura all’ufficio europeo che si occupa delle proprietà intellettuali”.
La quinta edizione della Milano Wine Week, la kermesse dedicata al vino che coinvolge la città di Milano dall’8 al 16 ottobre, ha aperto i battenti ieri con la presentazione della Guida Slow Wine 2023.
Sul palco dello storico locale Blue Note nel quartiere Isola, produttori e addetti al settore si sono avvicendati per celebrare le migliori cantine italiane e le etichette più interessanti, ma è stata anche l’occasione per fare il punto su uno dei temi più dibattuti dal mondo del vino italiano, quello delle denominazioni d’origine.
Una tavola rotonda che ha messo in evidenza luci e ombre di un tema più che mai attuale. Gabriele Rosso, tra i responsabili della Guida Slow Wine, ha evidenziato quanto la realizzazione di un testo di tale portata sia una mappatura in continuo aggiornamento dello stato delle cose del mondo del vino italiano: “Anche in questa tredicesima edizione – spiega Rosso – ci siamo imbattuti in tanti vini buonissimi che hanno abbandonato la denominazione perché bocciati dalle commissioni atte a riconoscergli la certificazione”.
La domanda è: perché così tanti vignaioli abbondano un certificato di qualità come quella della denominazione di origine? Un tentativo di risposta arriva da Jacopo Cossater, giornalista e collaboratore della guida per la regione Umbria: “Assodato che la denominazione è un attestato importante di appartenenza territoriale, l’abbandono da parte di così tante cantine pone un problema. Il motivo sta forse nel fatto che si parla sempre più di indicazioni stilistiche e meno di indicazioni geografiche, mentre è proprio la diversità a fare peculiare una zona. L’impegno deve venire soprattutto dai produttori, ma tanti sono ancora troppo concentrati più sul brand che sul luogo di produzione”.
Fa eco a Cossater Angelo Peretti, direttore del Consorzio Chiaretto e Bardolino, che parla di omologazione stilistica: “Il rischio è esattamente questo. Senza dubbio il lavoro della commissione è quello di garantire la sicurezza e la qualità dei vini, ma l’impostazione è figlia degli anni ’80 quando oggettivamente i vini non erano buoni come oggi. Le soluzioni a mio avviso sono tre: formare maggiormente le commissioni di assaggio, far entrare più vignaioli nelle commissioni, allargare al massimo i parametri per accogliere più differenze stilistiche e valorizzare le identità”.
Sul palco del noto locale milanese anche Matilde Poggi, produttrice veneta e presidente della Confederazione europea vignaioli indipendenti che ben conosce lo sviluppo e le criticità di queste tematiche a livello Ue: “L’80% dei vini esportati al di fuori dell’Unione europea è a denominazione di origine. Il valore delle Doc e delle Docg è quindi molto alto ed è importante mantenerle ma svecchiandole, lasciando una maggiore libertà ai produttori e assegnando loro, come nel modello francese, una maggiore responsabilità. È fondamentale anche avviare un più celere adattamento delle denominazioni anche perché il cambiamento climatico porterà a modificare la gestione delle aziende vitivinicole”. La vignaiola veneta ha anche evidenziato un problema di carattere politico: “Siamo molto preoccupati del passaggio delle competenze sulle denominazioni dalla Commissione agricoltura all’ufficio europeo che si occupa delle proprietà intellettuali. Questo vuol dire che le Doc saranno considerate come marchi privati ma così non è e non può essere, perché le Doc e le Docg sono beni collettivi che difendono interessi collettivi e che devono avere un forte collegamento con l’agricoltura e le pratiche agronomiche del territorio e invece con questo passaggio le denominazioni saranno gestite da chi di agricoltura non sa assolutamente niente” conclude Poggi.