Bambini sì, ovunque no: elogio dei childfree

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Non è una parolaccia inglese, ma una piccola e auspicabile rivoluzione, perché dovremmo imparare a convivere meglio (anche separandoci ogni tanto) tra chi ha figli e chi no

di Mattia Marzola

Qualche giorno fa, in vacanza con mia moglie e nostra figlia di un anno, ci siamo imbattuti in un ristorante che sembrava uscito da una cartolina: luci soffuse, silenzio ovattato, atmosfera elegante, accogliente. Perfetto, almeno in apparenza, per una serata speciale.

Appena varcata la soglia, però, un cameriere ci ha gentilmente fermati. Nessuna scortesia, solo un’informazione: il locale non è adatto a bambini piccoli. Fuori in effetti c’è un cartello che lo “sconsiglia” – perché in Italia, vietarlo in modo esplicito non è possibile – ma, come capita spesso in vacanza, non ci avevo fatto caso adattandomi al malcostume tutto italiano di non leggere. Siamo usciti con altrettanta gentilezza, senza fare polemica. E, sorprendentemente, senza sentirci offesi. Perché in realtà l’ho trovato giusto. Lo dico da padre innamorato di sua figlia, consapevole però del fatto che un bambino di un anno, per quanto dolce e adorabile, può piangere, urlare, voler camminare, fare i capricci. E non sempre si riesce a gestire tutto con prontezza, né è corretto pretendere che gli altri siano sempre pronti a sopportarlo, ovunque e in qualunque momento. Se in un mezzo pubblico o su un aereo è inevitabile condividere lo spazio, in un ristorante, dove si paga per godere di un’esperienza, è lecito desiderare una certa quiete.

C’è di più. Penso che sarebbe auspicabile – anzi, auspicabilissimo – che esistessero più luoghi pensati per essere childfree, cioè dedicati esclusivamente agli adulti. Perché? Non per discriminare, ma per creare spazi più sereni per tutti, bambini e adulti compresi.

Se so che esistono luoghi in cui l’accesso ai bambini non è previsto, io stesso – da genitore – mi sento più libero di scegliere quelli dove invece i bambini sono benvenuti, sapendo che chi ci entra ha accettato questa possibilità. È una forma di convivenza implicita, una sorta di patto di mutua comprensione: se sei qui, sai che potresti sentire un pianto o un vociare, e hai deciso comunque di esserci. Altrimenti, hai altre opzioni. Nessuno si infastidisce, nessuno si sente fuori luogo.

Questo approccio ridurrebbe i sensi di colpa delle famiglie (che spesso si sentono osservate, giudicate, tollerate a fatica) e restituirebbe agli adulti senza figli la possibilità di scegliere un ambiente più conforme ai loro desideri. Ne guadagnerebbero tutti: genitori, non genitori, ristoratori e clienti.

Purtroppo, però, in Italia non è possibile vietare l’ingresso ai bambini, nemmeno nei locali privati. La normativa – in particolare l’art. 187 del Regolamento di esecuzione del TULPS – impone che tutti gli esercizi pubblici garantiscano parità di accesso, salvo motivi di ordine pubblico o sicurezza. Per questo motivo, l’unica soluzione attuale è “sconsigliare” la presenza di minori, senza potersi appellare a un vero e proprio diritto di selezione.

Eppure il punto non dovrebbe essere giuridico, ma culturale. Servirebbe una riflessione collettiva sul concetto di convivenza: non sempre passa per l’inclusione forzata, ma a volte proprio attraverso la separazione consapevole. Non si tratta di dividere il mondo tra genitori e non-genitori, ma di offrire possibilità a entrambi. Così come esistono voli silenziosi, alberghi per soli adulti o spa vietate ai minori di 14, talvolta persino 16 anni, anche nella ristorazione ci potrebbe essere spazio per un’offerta differenziata e trasparente.

Non è snobismo, né esclusione: è rispetto. È la libertà di scelta. È la consapevolezza che possiamo condividere il mondo, senza pretendere di occupare sempre gli stessi spazi, tutti insieme, in ogni momento.

E magari, così facendo, anche quel pianto nel tavolo accanto – quando lo sentiremo – ci sembrerà un po’ meno fastidioso. Perché sapremo di averlo accettato. O, se non lo vogliamo, sapremo dove andare.

 

Immagine di Mattia Marzola

Mattia Marzola

Giocoliere di parole, voracissimo lettore, buona forchetta (e buon bicchiere) ha deciso di unire le sue inclinazioni, diventando così appassionato docente di lettere ed entusiasta giornalista enogastronomico, anche se poi scrive di tutto.

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