Un lungo viaggio italiano da Nord a Sud, per scoprire come il calice accompagna le Feste: storia, tradizioni, lavoro intorno alla tavola (e non solo…)
Anche quest’anno il Natale si avvicina. Un tempo sospeso che, da sempre, è sinonimo di condivisione: tavole che si allungano, bicchieri che si riempiono, storie che tornano a essere raccontate. Nulla, nemmeno in età adulta, conserva la stessa aura di magia del Natale, un rito collettivo capace di riunire, avvicinare, riconciliare.
In fondo, non è poi così diverso dal vino. Anche lui nasce per essere condiviso, anche lui crea legami, anche lui accompagna i momenti importanti. Come il Natale, porta con sé qualcosa di sacro, nel gesto, nel tempo, nell’attesa, e come il Natale è da sempre circondato da simboli, racconti, leggende. Il vino matura nel silenzio, il Natale nell’attesa; entrambi trasformano il quotidiano in qualcosa di più profondo.
E allora quale occasione migliore, per Vendemmie, per continuare a celebrare questo tempo speciale?
Dopo avervi accompagnato lungo un Calendario dell’Avvento fatto di bottiglie, storie e suggerimenti, e dopo aver esplorato gli abbinamenti tra vini e dolci natalizi da ogni angolo d’Italia, vogliamo fare un passo ulteriore: raccontarvi alcune leggende, spesso poco conosciute, che intrecciano il vino al Natale.
Storie nate nelle campagne, nelle cantine, attorno a botti e focolari. Racconti in cui il vino diventa simbolo, miracolo silenzioso, gesto di ospitalità. Perché, a Natale più che mai, anche un calice può farsi racconto.
Ad esempio nella tradizione contadina della Val d’Isarco si raccontava che alla mezzanotte della Vigilia il vino nelle botti “si fermasse”. Per un istante non fermentava, non respirava, come se trattenesse il fiato insieme al mondo intero. I vecchi dicevano che in quel momento il vino fosse vivo più che mai, raccolto in una sorta di silenziosa preghiera. Guai ad assaggiarlo: non perché fosse proibito, ma perché quel gesto avrebbe spezzato un equilibrio sacro. Il vino, come gli uomini, doveva attraversare la notte di Natale in ascolto. Solo al mattino, tornato a essere se stesso, avrebbe ripreso il suo lento cammino verso la maturità.
Scendendo più a sud, tra le colline delle Langhe e del Monferrato, il rapporto tra vino e Natale assumeva una forma diversa, ma altrettanto profonda. Qui si diceva che a San Martino il mosto diventasse vino, ma che solo a Natale diventasse davvero buono. Non era una questione di tecnica o di tempo, bensì di spirito. Per questo molte famiglie aspettavano la Vigilia o il giorno di Natale per stappare la prima bottiglia dell’anno nuovo. Prima, il vino era acerbo non solo nel gusto, ma nell’anima. Dopo Natale, invece, era pronto a raccontare chi era diventato.
Oltreconfine, in un’altra grande terra dove il vino è tradizione, tra i villaggi della Provenza, si raccontava di un vignaiolo poverissimo che, la notte di Natale, si trovò davanti alla porta un viandante infreddolito. Non aveva nulla da offrirgli se non l’ultima brocca di vino rimasta in cantina. La versò senza esitazione, convinto che a Natale nessuno dovesse restare escluso. Il mattino seguente, sceso in cantina, trovò la botte di nuovo colma. Il vino non era soltanto tornato: era diverso, più profumato, più dolce. Un miracolo discreto, dicevano, nato non dall’abbondanza, ma dal gesto di chi aveva saputo donare senza calcolo.
In Borgogna, invece, il legame tra vino e Natale si esprimeva soprattutto nella condivisione. In molti villaggi rurali esisteva l’usanza di aprire, il giorno di Natale, una bottiglia che non era destinata alla vendita: il vin de Noël. Non doveva essere il migliore della cantina, né il più prezioso, ma quello giusto per stare insieme. Doveva essere bevuto in compagnia, offerto anche a chi passava per caso. Si diceva che bere da soli il vino di Natale portasse sfortuna alla vendemmia successiva, perché il vino, come la terra, non ama l’egoismo e restituisce solo ciò che riceve.
Di nuovo in terra italica, tra l’Umbria e le Marche, alcune tradizioni orali raccontano una storia ancora più simbolica. Si diceva che la vite fosse nata nella notte di Natale, creata per accompagnare l’uomo lungo il tempo e trovare il suo compimento più avanti. Il vino, in questa leggenda, nasce insieme al Bambino, ma è destinato a rivelare il suo significato solo da adulto, quando diventerà segno di sacrificio e redenzione. Natale e Pasqua, così, si tengono insieme in un calice: nascita e compimento, attesa e pienezza.
In Trentino, infine, dopo la Messa di mezzanotte, molte famiglie erano, e sono, solite bere un solo sorso di vino rosso prima ancora di sedersi a tavola. Non un brindisi rumoroso, ma un gesto silenzioso, quasi intimo. Spesso una bottiglia dell’anno precedente, conservato apposta. Un modo per attraversare il confine tra un anno e l’altro, portando con sé ciò che era stato e affidandolo al futuro. Perché, come il Natale, anche il vino non serve solo a celebrare: serve a ricordare, a legare il tempo, a dare senso all’attesa.
E così, tornando all’origine di questo nostro racconto, viene naturale pensare a un vecchio adagio della saggezza popolare, reso poi celebre da slogan e motti ben più commerciali: se a Natale siamo tutti un po’ più buoni, perché dovrebbe fare eccezione il vino? Proprio come il Natale, il vino ci ricorda nella sua antica saggezza che spesso un gesto vale più di mille parole, e che offrire un calice, soprattutto a Natale, riesce a unire più di tante dichiarazioni.
Perché alla fine il vino non serve a stupire, ma a stare insieme. A creare uno spazio comune, anche solo per il tempo di un brindisi. Lo stesso che rivolgiamo a voi: tanti aguri da Vendemmie.
Mattia Marzola
Giocoliere di parole, voracissimo lettore, buona forchetta (e buon bicchiere) ha deciso di unire le sue inclinazioni, diventando così appassionato docente di lettere ed entusiasta giornalista enogastronomico, anche se poi scrive di tutto.