Il titolare della cantina toscana racconta Bolgheri: “Ogni annata è una conversazione diversa che non si può imporre, si può solo ascoltare”
di Sara Calimari
Quando ho programmato la mia vacanza a Bolgheri, la prima cosa che ho fatto è stata cercare le cantine da visitare. Tra i nomi che mi incuriosivano, Di Vaira, era uno di quelli che avevo sentito più volte, sempre accompagnato da parole di stima. Ma ciò che mi ha fatto davvero decidere di scrivere per fissare una degustazione è stata una frase letta sulla home del suo sito: “Vignaiolo come scelta di vita”.
Una foto di Dario, ripreso dal basso, sorridente e scherzoso sopra una vasca di cemento, mi ha subito dato la sensazione di trovarmi di fronte a una persona fuori dagli schemi, capace di guardare il mondo da un’altra prospettiva. Ed è proprio questo lo sguardo di cui il vino, oggi più che mai, ha bisogno.
Così, in un pomeriggio d’agosto caldissimo, arrivo a Castagneto Carducci. Qui Dario ha la sede dedicata all’ospitalità e alle degustazioni, mentre l’anima produttiva dell’azienda si trova a Donoratico, dove dal 2017 si concentrano le operazioni di vinificazione. A Castagneto rimangono però i vigneti storici, circa dieci ettari distribuiti lungo la via Bolgherese e nelle sue colline, dove la brezza marina accarezza i filari e l’aria profuma di macchia mediterranea.
Dario appartiene alla terza generazione di una famiglia arrivata a Bolgheri negli anni Cinquanta dal Molise. “Sono nato qui” mi racconta, “e ho imparato che la vigna ti restituisce quello che le dai. Nel 2008, dopo la laurea in viticoltura ed enologia, ho deciso di cambiare rotta: volevo che l’azienda di famiglia, allora agricola mista, diventasse una realtà vitivinicola di eccellenza, capace di parlare il linguaggio di Bolgheri ma con voce propria.”
L’essere vignaiolo per Dario è filosofia di vita: un equilibrio fra tecnica e istinto, rispetto del territorio e libertà di interpretazione. “Ogni annata è una conversazione diversa con la terra” dice “Non si può imporre, si può solo ascoltare.”
I dieci ettari di vigneti sono parcelle che sembrano pagine diverse di uno stesso libro. Qui, mi dice Dario, “ogni metro cambia colore e voce”.
Ci sono i suoli sabbiosi de Le Bozze, dove nascono i bianchi (Vermentino e Viognier) minerali e salmastri, e le terre più profonde de Il Puntone (un medio impasto di limo, sabbia e argilla), che ospitano i vecchi impianti di Cabernet Sauvignon e Franc. Poi Podere Clarice, ai piedi della Rocca di Castiglioncello, da cui il Merlot trae freschezza e tensione, e infine sulle colline che fiancheggiano la via Bolgherese, si trova Il Poggio, affacciato sul Tirreno. Qui il Merlot è allevato su terrazze che si alternano a olivi secolari, mentre Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc seguono il pendio a rittochino, godendo di un’esposizione piena e ventilata. Il terreno è fortemente eterogeneo: in pochi metri si alternano strati di argille grigie, sabbie e limi ricchi di scheletro. Questa complessità pedologica dona alle uve una straordinaria profondità espressiva e una trama minerale che si riflette nei vini, di grande equilibrio e tensione.

Ad accogliermi in azienda è Giulia, la moglie di Dario: solare, preparata, di quella gentilezza che apre subito a un dialogo autentico.
Il primo vino è Le Pinete 2024, Vermentino Bolgheri DOC.
Il nome richiama la vicinanza del mare e della pineta che accompagna il respiro di questa terra. Le uve provengono da due appezzamenti: uno con suoli di medio impasto, dove si trovano le vigne più vecchie, che donano intensità e frutto, e l’altro impianto più recente dal carattere più sabbioso, che conferisce freschezza e tensione minerale.
Nel calice un dorato vibrante, esordisce su note di pietra focaia, lime e pesca bianca, poi gelsomino e cenni mediterranei di elicriso.
All’assaggio è bilanciato e succoso, una marea di freschezza e sapidità che accompagna il frutto in un gioco armonico. Il finale è lungo, sapido, con una scia di pesca e noce che persiste e invoglia al sorso successivo.
Un Vermentino tipicamente bolgherese, che parla il linguaggio del mare, con quella immediatezza estiva che non rinuncia alla profondità.
Si prosegue con Rapé 2024, Toscana IGT Viognier 100%.
Il Viognier è la prima varietà ad essere raccolta qua a Bolgheri, tra fine agosto ed inizio settembre.
Una parte del mosto fermenta e affina in barrique di rovere ungherese, il resto in acciaio, con batonnage periodici per donare maggiore cremosità al vino.
Il risultato al calice è oro liquido, denso, luminoso. Si apre su profumi fruttati di albicocca e pesca, poi rosa gialla e miele, fino a note più piccanti di zenzero e cedro canditi su un finale di pepe bianco.
In bocca il sorso è materico, pieno, morbido, con una componente alcolica ben bilanciata dall’acidità fruttata su note di pesca e kumquat. Accompagna una lunga scia sapida che prolunga il ricordo.
Un Viognier dal carattere elegante, sensuale e mediterraneo, che coniuga complessità e freschezza, soleggiato, ma mai opulento.
Poi arrivano i rossi, e si comincia con Clarice 2023, Bolgheri Rosso DOC.
Blend di Merlot (50%), Cabernet Sauvignon (40%) e Cabernet Franc (10%), da suoli argilloso-sabbiosi ricchi di scheletro. Le uve fermentano separatamente in acciaio e cemento, con successivo affinamento di nove mesi tra barrique di rovere francese e cemento. In un rosso rubino di media intensità, al naso si svela su un pot-pourri di viola e rosa, per arrivare alle note più noir del cassis e della mora di gelso. Cenni balsamici di alloro e radice di liquirizia anticipano un timido cenno ematico di cuoio.
L’ingresso in bocca è potente, con un attacco acido-tannico fruttato, poi la trama si distende su una chiusura sapida e persistente, con echi di tamarindo e china.
La 2022, invece, con l’aggiunta di una piccola percentuale di Petit Verdot, si presenta con una maggiore ricchezza polifenolica in un rubino più fitto e impenetrabile. Al naso emergono le note varietali del Petit Verdot in cenni speziati, poi vira sul vegetale e fumé, quasi minerale, accarezzato da un tocco di vaniglia. Il sorso è più strutturato, il tannino preciso e centrale, l’acidità fruttata e la chiusura lunga su un’eco di frutti scuri.
Un vino generoso e complesso, che unisce spontaneità e profondità, riflesso autentico del terroir bolgherese.

Il Bolgheri Superiore 2022 è un blend di Cabernet Sauvignon (45%), Cabernet Franc (30%) e Merlot (25%) da terreni argilloso-sabbiosi ricchi di scheletro. Le varietà fermentano separatamente, con una macerazione di circa due settimane, seguite da malolattica e affinamento di 16 mesi in barrique, metà nuove e metà di secondo passaggio. Nel calice brilla un rosso rubino intenso dai riflessi carminio. Il profilo olfattivo è ampio e avvolgente su note fruttate di ciliegia, cassis, mirtillo, poi cenni balsamici di radice di liquirizia, incenso, anice e spezie dolci sul sandalo e la noce moscata. Seguono accenti di lavanda essiccata, pepe verde e carrube.
In bocca domina un’acidità fruttata che integra il tannino, ancora scalpitante, ma già fine e centrale. La trama è precisa, elegante, la chiusura sapida e lunga su richiami di cioccolato fondente.
Un Bolgheri di grande armonia e profondità, capace di unire potenza e grazia, destinato a un lungo futuro in bottiglia.
È quasi alla fine della degustazione che compare Dario. È stanco — quel giorno a Bolgheri avevano persino tolto l’acqua per dei lavori — ma sorride, con quella leggerezza di chi sa trasformare le difficoltà in ironia. “Scusa il ritardo,” dice, versando due calici del suo C.F.11, Cabernet Franc in purezza, “Oggi il destino ha deciso di mettermi alla prova!”
Il Cabernet Franc è — lo ammetto — il mio vitigno del cuore, e lo dico subito. Dario ride, e da lì comincia una conversazione che scorre naturale: parliamo della Loira, dei terroir di Chinon e Saumur, delle espressioni più eleganti di questo vitigno così nobile e sfuggente. In pochi minuti sembriamo vecchi amici.
Il C.F.11 nasce da una particella dedicata, composta da soli undici filari con una selezione clonale fatta direttamente in Francia, in base alle caratteristiche dei terreni argilloso-sabbiosi con scheletro della zona. Fermentazione in cemento non vetrificato a temperatura controllata per circa venti giorni, poi affinamento in barrique nuove di rovere francese per sedici mesi.
Dario mi versa il 2022: nel bicchiere è un rubino vibrante dal riflesso carminio. Al naso si apre con profondità su cassis, mora di gelso, lavanda e viola essiccata. Emergono poi ricordi di sottobosco, corteccia, carrube, scatola di sigari e pepe nero.
In bocca entra sottile — come solo un grande Franc sa essere — in perfetto equilibrio tra acidità fruttata e tannicità elegante. Il tannino è finissimo, cesellato, perfettamente integrato. Il finale è lunghissimo, sapido, con echi di cioccolato fondente e tabacco biondo.
Dario mi guarda e sorride: “Ora proviamo anche il 2021.”
Qui il colore cambia registro: rubino fitto, quasi violaceo. Al naso è più compatto e profondo, il fiore prevale — viola e lavanda — poi note balsamiche di alloro, incenso e cenni officinali che ricordano il rosmarino, su una scia finale che vira al frutto scuro e impenetrabile di cassis. Al palato è armonia: acidità e tannino danzano come in una coreografia perfetta, il sorso si posiziona al centro della bocca, snello e profondo insieme, chiudendo su un lungo finale di cioccolato e spezie.
Ci guardiamo, sorridiamo: non servono parole.
Restiamo a parlare ancora un po’. Il caldo, la stanchezza, il problema dell’acqua sembrano lontani. Restano solo la voce calma del vino, il suono dei bicchieri e la sensazione di essere nel posto giusto, al momento giusto.
“Vignaiolo come scelta di vita,” rileggo nella mente, mentre lascio la cantina e il sole scende dietro i filari. Ora so che non è uno slogan: è vita vera.
E se il Cabernet Franc è il vino dell’anima, quello che parla piano ma arriva dritto, allora qui, a Bolgheri, tra mare e colline, ha trovato la sua voce più sincera — la voce di Dario Di Vaira.

Sara Calimari
Curiosa e sicuramente eccentrica, racconta il mondo che la circonda, cercando sempre di trasmettere le emozioni che suscita in lei. Guarda al vino come alla più alta forma di storia del costume, indissolubilmente legato alla terra da cui nasce. Per lei, un calice è come un libro, che legge e racconta con umiltà nella sua genuinità.