Una regione che scala le classifiche tradizionali grazie al lavoro, alle cantine artigianali e alla lotta alle divisioni
di Nello Gatti
Montagne verdi più belle persino di quelle cantate da Marcella Bella, rocce violente come il Gran Sasso e i calcinacci lasciati ai piedi delle strade aquilane: questo è l’Abruzzo. Ma c’è anche il sole e il mare, quelle coste adriatiche, mai sfruttate a pieno, meno battute della Romagna e meno in voga delle pugliesi forse a causa di quel legame con Napoli sotto il cui Regno è stato per tanti anni.
Ma chi è l’Abruzzo del vino? Un grande orso marsicano, come quello che sopravvive nel Parco Nazionale, una specie protetta che, talvolta, pensiamo di conoscere a fondo ma una volta davanti ai nostri occhi appare per come è realmente. Montepulciano, Trebbiano e Pecorino sono le prime tre parole a venirci in mente, con la quasi totalità delle etichette parcheggiate supermercati tra gli scaffali in cui si fa fatica a superare la soglia dei 4 Euro bottiglia.
Inutile nasconderlo, questa è la realtà più diffusa e coincide con quella grossa industria del settore che, oltre al fabbisogno del mercato, mantiene leggermente sopra la soglia della sopravvivenza i numerosi viticoltori e operatori coinvolti.
Ma poi c’è l’artigianato, quello fatto di storie tramandate e sentimenti corrisposti, di inizi impervi e terreni da ascoltare. Questi artigiani, sono disposti un po’ a macchia di leopardo e a gran sorpresa, si vogliono un gran bene fra loro, un caso più unico che raro nel provinciale sistema vitivinicolo italiano, talvolta astioso: c’è il Rocker di Controguerra, la First Lady urban di Tortoreto, il Dandy selvaggio di Francavilla. Sono le percussioni tattili dei vini di Bossanova sulle colline, gli impulsi del vento di Terraviva e il mare che si infrange sulle pietre (e non i trabocchi) di Torre Zambra. Ma si deve anche tanto a nomi che hanno fatto la storia italiana, oltre che a rovesciare le regole del gioco quando l’Abruzzo non era nemmeno qualificato in quelle competizioni, in cui a dominare le classifiche c’erano sempre Piemonte, Veneto e Toscana.
Stiamo ovviamente parlando di un podio tutto abruzzese che non vede rivalità, ma altissima competizione e primati raggiunti in tempi non sospetti: Edoardo Valentini, Emidio Pepe e Gianni Masciarelli. Il primo non accetta visite in cantina, il secondo sì ma non ci siamo ancora riusciti mentre il terzo è stato un grande affondo per la mia conoscenza, la mia poca cultura locale e non ultima la percezione di un’impresa al femminile che lavora sulle competenze, non sulla retorica.
Perchè Masciarelli è ora, come l’omonima linea, guidata da Marina Cvetic: tra fiere e incontri ho visto solo loro, le donne di Masciarelli, un mix di calore e competenza che ogni essere umano si augura di incontrare quando passa in visita presso un’azienda. E poi ci sono Francesca, Federica e Lorenza, come tessere colorate di questo puzzle disposto su più tenute e diviso in più racconti. Grazie a loro si entra nella macchina del tempo, quella fatta di sogni realizzati e promesse che adesso vanno mantenute, rimanendo sempre in rapporto di osmosi tra critica internazionale e voci di paese, contesto metropolitano e comunità locale.
Dopo il grande Maestro, passiamo ai giovani Vigneron. Ragazzi per bene, portano con loro un messaggio diverso che persegue uno stesso fine: l’Abruzzo sono anch’io! Nat è il frontman della band enoica che dalle colline del teramano scandisce colpi di batteria e principi biodinamici, per dare al suo Montepulciano un nuovo palcoscenico, quello che si riconosce col puro sorso. Domina le dolci colline vitate che spaccano in due Piceno e Abruzzo, ma alla divisione politica non crede più di tanto, ciò che conta è l’unione degli elementi di forza.
Vini di carattere, che fanno della longevità e l’estrazione il proprio passaporto per essere riconosciuti anche all’estero e scardinare dalle menti quella parafrasi del Montepulciano d’Abruzzo “tutto fumo, niente arrosto”. Attorno a lui un complesso di soggetti ragionati e aperti, non sono sicuro del disco di platino, ma porteranno grazie al loro esempio l’Abruzzo su in classifica per usare una metafora musicale.
Dalle colline verso il mare, le mille bolle blu sono a pochi passi da Terraviva dove il sorriso brillante di Federica ci guida verso un Abruzzo elegante, cosmopolita, innovativo. Tappi a vite, vecchie annate ed enoturismo: tre dirette conseguenze di una famiglia dedita alla ricerca e all’integrazione di quella filiera che dal Mare Adriatico si dirige spedito nei principali mercati mondiali. Sono stato da loro solo una volta, ma è proprio il caso di dire: anche quando il Gatti non c’è, i topi ballano… e fanno bene, se lo meritano!
Passiamo infine più a sud, dove le montagne si fanno più dure e il vento più forte. Federico de Cerchio è un giovane brillante che alterna i numerosi viaggi di lavoro a momenti di relax dominati da una birra e una frase: “A nu cert punt”. Un Ivan Drago dai modi gentili che nel suo chietino non vuole più vedere enormi serbatoi di vino generico ma nuove roccaforti identitarie, come quella che ha in progetto a Villamagna. I suoi vini alternano, a ritmi cardiopatici, il fascino di un’etichetta retro a colpi di marketing in cui etichetta, bottiglie e tappo sono il risultato di quella mente “out of the box” espressa nel prodotto.
Alla luce di ciò comprendiamo ora meglio come oltre ai grandi consorzi, i giganteschi volumi e le dubbie nuove denominazioni, ci sia anche uno scenario sempre meno silenzioso a ricordarci il “terzo stato”. È forse già partita la “rivoluzione abruzzese”?