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Giovanni Branchini: “La mia vita a tavola tra guantoni, bicchieri e palloni”

Tempo di lettura: 5 minuti

di Luca Serafini

“È vero che i migliori affari si fanno al ristorante, ma a tavola in Spagna ho subito un flop indimenticabile. Il vino è passione, curiosità, conoscenza. Ho contribuito al successo della ‘Langosteria’ (Milano, Paraggi, St.Moritz, Parigi, presto a Londra e negli Usa) da cliente, poi da socio e infine da barman. E pensare che sono figlio di astemi…”

Umberto Branchini è stato il più grande manager italiano di boxe, probabilmente uno dei più grandi del mondo insieme al leggendario Don King: ha organizzato incontri in 6 continenti nei 40 anni della sua carriera, ha diretto 11 campioni del mondo e 43 campioni europei, nel 2004 (7 anni dopo la sua scomparsa) è entrato nella “International boxing hall of fame”.
Giovanni, dopo aver inizialmente seguito le orme del padre, ha intuito che il pugilato stava decadendo perché “le motivazioni del successo nello sport sono disperazione, o smisurata ambizione, o la bella vita”. Nel tempo è tramontata la disperazione che salvava i grandi pugili dalla strada portandoli sul ring. Il talento unito all’esperienza tramandata e acquisita sul campo, hanno spianato la strada a Giovanni Branchini verso i traguardi di una carriera straordinaria: Ronaldo il Fenomeno, Alemao, Rui Costa, Donadoni, Albertini, Cafu, Suazo, Nakata sono solo alcuni delle decine di campioni avuti nella sua scuderia: oggi gli eredi Francesco, Giacomo e Edoardo stanno seguendo le orme del nonno e del padre. 
Giovanni Branchini è stato indicato dall’autorevole rivista spagnola “Don Balon” tra le prime 10 persone al mondo più influenti nel mondo del calcio. Viene naturale l’incipit più banale del mondo…
 
I migliori affari si fanno a tavola?
Sì, purtroppo: è una consuetudine contraria ad ogni forma di dieta… E’ un momento di incontro in cui lavoro e relax possono mescolarsi in maniera decisiva. Però onestamente uno dei più grandi flop della mia professione avvenne per colpa di una cena. Nella primavera di una ventina di anni fa ero a La Coruna con il presidente del Bayern Monaco e l’amministratore delegato del club, niente meno che le stelle Uli Hoeness e Kalle Rummenigge: volevano prendere la stella del Deportivo, l’attaccante olandese Roy Makaay. Già per due tedeschi andare al ristorante alle 10 di sera, come usa in Spagna, è motivo di malumore, figuriamoci poi se il presidente del Deportivo si presenta a mezzanotte con due ore di ritardo… Io conoscevo bene Cesar Augusto Lendorio, era anche preside di un collegio privato, una persona gradevole, ma questa mia rassicurazione non placò la furia dei due dirigenti tedeschi imbelviti, affamati e assonnati. Quando Lendorio si sedette a tavola, non ci fu modo di trovare un solo punto di incontro in un clima di tensione estrema. Per completare quel trasferimento ci misi quasi 6 mesi perché poi, all’ultimo momento, Lendorio chiese che l’IVA fosse pagata dal Bayern. Piansi di rabbia, forse per la prima e unica volta nella vita, ma trovai una soluzione ardita: ci tassammo tutti per recuperare quei soldi, io, il Bayern, il giocatore… Ognuno lasciò sul tavolo una parte del suo guadagno. Una cosa che oggi non sarebbe più nemmeno ipotizzabile, figuriamoci!
 
Ma molte trattative le avrai pure chiuse davanti a un bel piatto e un buon bicchiere… 
Certo, sono cose che non sottraggono tempo al lavoro. L’ultima è stata l’estate scorsa, quando ho trasferito Nzola dallo Spezia alla Fiorentina. 
 
Il migliore interlocutore a tavola?
Senza dubbio il figlio di Gil y Gil, il vulcanico presidente dell’Atletico Madrid. Miguel Angel Gil è una persona piacevolissima, con lui a tavola si parla pochissimo di lavoro e molto di cavalli, cibo, vini… Per di più si accompagna con il vicepresidente Enrique Cerezo che è il più importante produttore cinematografico spagnolo. Con loro le serate non finiscono mai.
 
Sei diventato un appassionato o un esperto, di vini e di cucina?
Pensa che sono figlio di astemi, persino mio fratello minore Adriano lo è… Se voleva rallegrarsi un po’ mio padre Umberto beveva un goccio di Campari, nient’altro. Ma cosa vuoi, almeno il 95 per cento del mio lavoro chiama la tavola. Tutto ha un’origine, la mia è che ho iniziato a girare il mondo da quando avevo 18 anni e così tra hotel, ristoranti, posti nuovi sono diventato un curiosissimo conoscitore: soltanto dopo è subentrata la passione. Nei miei viaggi ho anche molti tempi morti e la solitudine chiama vino e cibo, nonostante io non sia tutt’ora né un grande bevitore né un mangione.
 
Cittadino del mondo insomma. Questo ha cambiato le tue abitudini, il tuo gusto, le tue scelte?
Certamente sì. Andare a cercare la specialità di quella città, quel Paese, quel ristorante, scoprire cose buone e diverse, è un’esperienza eccezionale. Ha aumentato la tendenza di un gusto trasversale: la cucina etnica, quella vegetariana che non disdegno affatto. Un bicchiere di rosso non manca mai: ero un fanatico de “La Tache”, ma il suo prezzo oggi lo fa apparire più un’ostentazione che una scelta. Quindi dirotto sul Masseto o sull’americano Opus One. Dopo aver scoperto molto tempo fa la Lungarotti e il loro paradiso delle “Tre vaselle”, mi piace andare a visitare le aziende: sono stato a scoprirne in Tasmania, Sudafrica, di recente la Penfolds che è una delle più antiche case vinicole australiane. Così mi imbatto in altre realtà che amo: il whisky, per esempio, e ora ho imparato a bere il sake giapponese che ha una filosofia completamente diversa rispetto alla nostra. Da noi il cibo esalta il vino, da loro il sake esalta il cibo. 
 
Giovanni Branchini alla cantina Penfolds in Australia
Per tutte queste cose sei diventato un socio attivo della “Langosteria”, ristorante e bistrot milanese da anni sulla cresta dell’onda.
Conobbi il proprietario Enrico Buonocore grazie al giornalista del Corriere della Sera, il compianto amico Roberto Perrone, al quale mi rivolgevo di tanto in tanto per chiedergli suggerimenti sulle novità milanesi. Non sono un patito di pesce, ma l’intraprendenza di Enrico e dei suoi collaboratori, il suo amore per il calcio, l’ambiente e il livello altissimo del suo locale, mi rapirono. In poco tempo diventai prima consulente, poi socio operativo. Gli davo consigli sul menu, sulla carta dei vini, sulle strategie. Ho selezionato anche tutti gli alcolici del bar e creato un ambiente particolare dove si potevano fumare i sigari. Poi partì l’idea di entrare in società con i suoi due maggior fornitori e allora l’azienda è decollata, ingigantendosi: da 18 gli impiegati sono diventati 200 e dai due locali milanesi, ora sono aperti a Paraggi, St. Moritz, Parigi, presto aprirà a Londra e negli Stati Uniti. Ho lasciato spazio ad altri soci più importanti, come Remo Ruffini (presidente e ad della Moncler, ndr), ma resto un appassionato cliente.
 
Chi tra i calciatori della tua scuderia ha grande passione per il vino?
Il più datato è certamente Demetrio Albertini, ma Frey e Montolivo si sono avvicinati parecchio.
 
Vai in giro per il pianeta, ami buona cucina e buon vino: ti spaventa come l’uomo stia massacrando la natura? Hai un’idea su che fare per aiutare questa terra malata?
Non prendermi come miope o egoista, piuttosto come una persona sincera: non studio la questione. Trovo ineluttabile intervenire e mutare il corso delle cose, devono farlo persone preposte. Posso solo dirti con un po’ di malinconia che, se fossi giovane, comprerei una villetta sul mare della Norvegia perché penso che il futuro delle vacanze estive europee sia lì… E per uno come me che ama la Sicilia e la Sardegna, è una considerazione ancora più amara. 
Luca Serafini

Luca Serafini: dal 1° febbraio 2024  direttore di Vendemmie, giornalista e scrittore, ha una lunga carriera televisiva alle spalle ed è tuttora opinionista sportivo tra i più apprezzati. Ha pubblicato saggi e romanzi, con “Il cuore di un uomo” (Rizzoli, 2022) ha vinto il premio letterario “Zanibelli Sanofi, la parola che cura”.

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