L’universo culinario ed enologico di Alessandro ed Enrico si fondono per creare un’esperienza che gioca a rompere gli schemi, tra abbinamenti liquidi e pietanze sexy
di Alessandra Meldolesi
Fra le realtà emergenti più originali d’Italia, La Tana di Asiago è da quindici anni il laboratorio creativo di Alessandro Dal Degan ed Enrico Maglio, rispettivamente in cucina e in sala. L’incontro è avvenuto fortuitamente, in un ristorante del paese dove il sommelier già lavorava. Lo chef aveva bisogno di qualche stimolo nuovo in cucina e Dal Degan stava giusto lasciando la Toscana. “E all’inizio mi pareva che facesse il superuomo, poi ha mostrato che mani avesse”, scherza Maglio. Quando all’amico è arrivata la proposta di un locale suo, prima del trasferimento fra i prati nel 2014, il primo pensiero è stato quello di cercare il vecchio complice. Ma il progetto ha preso forma via via, un anno dopo l’altro e fin nei minimi dettagli. Cosicché oggi anche gli abbinamenti sono un terreno di sperimentazione, con l’alternanza di vini, birre, cocktail e piatti liquidi che si posano come veli sexy sulle pietanze, quasi fossero la vera acqua della gastronomia per neutralità e trasparenza.
Dal Degan: “Qui è cambiato tutto. Nel 2019 abbiamo ristrutturato l’altra ala del locale, dove c’era il bar, e ne abbiamo fatto un ristorante. Poi è successo quel che è successo. Ci hanno chiuso. Da quel momento abbiamo completamente stravolto il nostro modo di lavorare, perché quando abbiamo avuto la data per riaprire, abbiamo pensato che la ristorazione tradizionale non avrebbe avuto grossi problemi, La Tana chissà. Economicamente parlando, la decisione più razionale sarebbe stata non riaprire, utilizzando i suoi spazi per ampliare l’osteria, che è fatta molto bene ed è alla portata di tutti. Si trattava di buttare via 10 anni di lavoro o trovare un sistema che ci permettesse di limitare al massimo i costi, spendendo solo il necessario. Allora ci siamo ricordati del nostro sogno nel cassetto: quando abbiamo aperto nel 2009, miravamo a un ristorante dove servire a pochi coperti il solo menu degustazione; quel sogno è diventato l’unico modo per riaprire, tagliando i costi. Ed è stata un’esplosione tale che non siamo più tornati indietro. L’altra regola che ci siamo dati è che nessun piatto potesse essere riproposto. Sono solo due menu, uno invernale e uno estivo, con variazioni del 15-20% lungo la stagione. Già sappiamo cosa troveremo, quindi cosa sostituiremo con cosa, senza toccare la struttura.
Il menu da quell’anno viene chiamano ‘In cammino’ perché da un lato segue il nostro percorso, dall’altro i suoi 27-28 assaggi, serviti in 12 uscite, talvolta multiple, rispecchiano l’andamento di una camminata in montagna, dove abbiamo un punto di partenza e uno di arrivo, salite, discese, falsopiani. Punti di intensità che continuano a cambiare. La stessa cosa avviene in bocca, con un saliscendi di gusti soft e impegnativi, come durante una camminata. Il tutto da quest’anno si è arricchito di un nuovo aspetto, nato da un pensiero di Enrico: se fino all’inverno scorso la nostra prima proposta era il menu e la seconda il menu con il pairing, dall’estate scorsa abbiamo fatto alcune prove e la nostra prima offerta è diventata un menu comprendente la parte liquida, seguito dal menu tout court. La riflessione partiva dalla necessità non dico di eliminare, ma di dimezzare l’alcol del pairing. Perché abbiamo il 99% della gente che fa il viaggio apposta per venire, alla fine deve quasi sempre rimettersi in macchina, quindi la parte alcol è un problema”.
Maglio: “Il pensiero è che, giustamente o no, si tratta sempre di alcol. Da sommelier posso dire che mi piace bere un bicchiere di vino. Ma su un percorso molto lungo servirebbero almeno 5 o 6 calici, noi invece ne serviamo 3. Quindi la parte alcolica è stata molto diminuita. L’idea non è di abbinare, ma di continuare il piatto. Siamo arrivati a lavorare moltissimo in cucina, per chiudere in maniera liquida i piatti”.
DD: “Pur consapevoli che il lavoro sarebbe risultato maggiore, abbiamo trasformato l’auspicio di Enrico in una sequenza di liquidi, con qualche vino, bevande alcoliche e non, pensate come continuazione del piatto, in quanto composte dagli stessi elementi. Vedi il whisky sour sull’uscita dedicata al pesce azzurro, dove anche per ragioni di scarto zero, siamo andati a cercare l’acidità necessaria nella macerazione delle teste e delle lische degli stessi pesci”.
M: “Non abbiamo voluto fare analcolici per moda, ma integrare per bere senza bere, aumentando determinate sensazioni. È la nostra borraccia per andare in montagna ed è compito di entrambi. La base cocktail è fatta quasi tutta in cucina, per essere talvolta terminata in sala. Tutto pesato al micron per non sprecare nulla”.
DD: “Questa ormai è un’esperienza immersiva, significa uscire completamente fuori dai canoni della ristorazione stellata, facendo quello che ci piace. E ha funzionato anche economicamente. Noi abbiamo sempre dato la stessa attenzione al gourmet e alla trattoria, che è in grado di coprire tutti i costi, cosicché qui possiamo fare ciò che vogliamo. Poi il menu della Tana Gourmet è alla cieca, quindi la stragrande maggioranza delle persone non sapendo cosa scegliere, si affida al pairing. Di là invece l’offerta è sempre più strutturata e ordinano bottiglie anche importanti”.
M: “La cantina una volta era divisa fra lo stellato e l’osteria, poi ci siamo resi conto che il lavoro dei piatti liquidi può essere fatto pagare, come se producessimo il vino; mentre i Gaja vengono venduti altrove. Funziona così. Prima pensiamo il cammino, poi ci chiediamo dove mettere dell’alcol e cosa serve. Lo inseriamo dove ci piace o dove non riusciamo a fare un piatto liquido. Sulle frattaglie, per esempio, abbiamo concluso che non avremmo avuto la stessa efficacia di un vino. Poi tanti scelgono la parte liquida, ma affiancano sul tavolo una bottiglia a scelta”.