Un’analisi dell’Osservatorio Immagino, creato nel 2016 e che formula rapporti semestrali, ha preso in esame più di 139. 000 merci per stabilire valori e volumi di offerta e consumi
di Paolo Caruso
L’informazione sui prodotti alimentari non è mai stata così centrale nel dibattito sul cibo come negli ultimi anni. La necessità di informare i consumatori sulle caratteristiche delle proposte, è diventata una delle attività principali dei player del settore agroalimentare.
Purtroppo, molto spesso il confine tra informazione e marketing è molto sfumato, fino a rimanere indefinito al punto che le etichette dei prodotti, ovvero il primo interfaccia tra produttori e consumatori, sono sede di informazioni fuorvianti se non proprio di una vera e propria costruzione narrativa, che si astrae dal significato originale di informazione asettica, per divenire luogo di storytelling.
La necessità di attrarre una messe di consumatori sempre più ampia stimola la creatività delle aziende a creare aspettative e bisogni, soprattutto in termini di qualità organolettiche, salutistiche e financo territoriali, che sovente non corrispondono alle reali caratteristiche dei prodotti in questione.
Questi aspetti sono diventati fondamentali nello sviluppo delle campagne di vendita, peccato che risiedano nel luogo sbagliato: le etichette. L’assenza di una misurazione reale del rapporto tra informazione ricercata e vendite ha stimolato la nascita, nel 2016, dell’Osservatorio Immagino GS1 Italy, che con i suoi report semestrali analizza i comportamenti dei consumatori, partendo dalle informazioni presenti sulle etichette di 139.302 prodotti che rappresentano più dell’80% del giro d’affari della GDO in Italia.
La rappresentazione fornita da queste analisi, se ben studiata, rappresenta un vero e proprio trattato di sociologia sui comportamenti e sui fenomeni di consumo tipici del nostro paese.
I dati forniti dall’ultimo Report confermano, qualora ce ne fosse ulteriore bisogno, che i claim riferiti al “Made in Italy” (prodotto in Italia”, “100% italiano”, “solo ingredienti italiani” o il nome della regione di riferimento) e le indicazioni geografiche europee (Dop, Igp, Doc, Docg), sono i più ricercati per stimolare le volontà di acquisto nel nostro Paese.
L’analisi realizzata dall’Osservatorio Immagino fornisce a questo proposito delle indicazioni molto interessanti, sottolineando una dicotomia tra valori e volumi. In particolare è abbastanza significativa la divaricazione tra il calo dei volumi per il claim “prodotto in Italia” e, di contro, l’aumento delle vendite per i prodotti a denominazione Dop (Denominazione di origine protetta), gli unici ad aver chiuso il 2023 con numeri in crescita rispetto all’anno precedente.
Questo andamento divergente è sintomatico del calo di fiducia di un’industria agroalimentare che speculando sull’appeal del Made in Italy, non riesce più a penetrare il mercato come un tempo.
Si potrebbero fare moltissimi esempi su questo tipo di mistificazioni peraltro assolutamente legali; basti pensare al caso dei pomodori pelati ‘prodotti in Italia’, quando c’è la grande probabilità che la materia prima arrivi dalla Cina sotto forma di doppio e triplo concentrato e che con l’aggiunta di acqua e/o di sale, dia origine ad un prodotto “Made in Italy”.
La conferma di questo disagio viene dal già citato incremento delle vendite dei prodotti con indicazioni geografiche europee, quasi a significare di un maggiore controllo che ne certifichi caratteristiche e luogo di provenienza, anche qui tutte da dimostrare.
In generale, i prodotti DOP attraggono un pubblico accomunato dalla ricerca di autenticità, qualità, territorialità e richiamo al passato, che rendono il loro acquisto una scelta consapevole e significativa.
Ma anche in questo caso occorre fare attenzione.
L’indicazione geografica, come nel caso dell’IGP Pasta di Gragnano, è a volte foriera di informazione equivoca. Il collegamento con un determinato territorio non implica automaticamente la stessa provenienza della materia prima.
In questo caso ad esempio è possibile utilizzare grano estero, a condizione che una sola delle fasi di produzione avvenga in quel territorio.
Si può considerare in questo caso una denominazione (IGP) garante della provenienza?
E gli esempi potrebbero continuare per decine di prodotti.
Il Report sottolinea anche alcuni fenomeni italici che rappresentano delle consolidate tendenze di consumo.
Oltre alla denominazione geografica, gli italiani sono molto attenti al richiamo del free from, del rich-in (cibi ricchi o arricchiti) del “senza glutine” e del “senza lattosio”, del cibo identitario (vegetariano, vegano, biologico, halal e kosher) dei cibi del momento, dei prodotti naturali e biologici utilizzati per la cura della persona e per la pulizia della casa.
Il documento contiene anche interessanti spunti che decifrano l’acquisto di prodotti dettati dalle mode del momento: negli ultimi due anni si sono registrati cali intorno al 25% degli acquisti di Goji, Acaji (considerati superfood), farina di Kamut e curcuma. Mentre, presumibilmente per lo stesso, opposto, motivo, stanno incrementando le vendite di prodotti come mango (+24%), avocado (+33%), burro di arachidi, anacardi, caramello e farina di riso.
Questa estrema mutevolezza nel comportamento dei consumatori sottolinea la presa che determinati messaggi hanno soprattutto nella fascia meno informata di consumatori, dando origine a fenomeni effimeri che impongono una certa duttilità soprattutto dal lato dei produttori.
Ma sono le etichette ed i claim a destare più di una preoccupazione.
Sapersi districare e decifrare i messaggi veicolati dalle aziende, diventa spesso un compito improbo che impone una maggiore disponibilità all’informazione da parte del consumatore e, allo stesso tempo, la richiesta di maggiore chiarezza e obiettività delle informazioni dal lato dei produttori: l’etichetta di un prodotto non può essere sede di mistificazioni e marketing.

Paolo Caruso
Creatore del progetto di comunicazione "Foodiverso" (Instagram, LinkedIn, Facebook), Paolo Caruso è agronomo, consulente per il "Dipartimento di Agricoltura, Alimentazione e Ambiente" dell'Università di Catania e consulente di numerose aziende agroalimentari. È considerato uno dei maggiori esperti di agrobiodiversità