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A Casa Perbellini il vino è una storia d’amore… con un pizzico di gelosia

Tempo di lettura: 4 minuti

Chef Giancarlo con i suoi ragazzi Mirta e Stefano raccontano il ristorante: grandi etichette e abbinamenti sartoriali

di Alessandra Meldolesi

Fra i grandi chef italiani, Giancarlo Perbellini è forse il maggiore connaisseur quando si tratta di vino. Oggi nei bellissimi spazi storici di Casa Perbellini ai 12 Apostoli, dove ha mosso i primi passi appena diciottenne in veste di commis per Giorgio Gioco, si appoggia a due sommelier: Mirta Margaglio e Stefano Zandarin, che si occupano rispettivamente di servizio e pairing in sala e allo chef table, autentico ristorante nel ristorante. “Il vino è una passione che mi ha trasmesso un mio cliente dottore, che poi è diventato un amico, nei primi anni ’90, quando avevo appena aperto a Isola Rizza. Siccome mi ero ubriacato da piccolo, ero diventato astemio e mi affidavo in toto al direttore sommelier. Pian piano abbiamo iniziato a girare e siamo andati in Borgogna. Eravamo agli inizi del vino di qualità in Italia, ma al di là delle Alpi c’erano già cose straordinarie. Quindi ogni tanto mi dava qualche dritta e assaggiavamo insieme nei ristoranti. La prima volta che ho sentito Jayer, è stato con lui da Georges Blanc. Mi ha detto: ‘Questo è il numero uno, il più grande’. E mi ha fatto l’effetto che mi fa tuttora, per la persistenza, l’eleganza, il velluto. È il mio vino. Ogni volta che vedo passare una bottiglia del genere, mi arrabbio perché non me le danno. Ma c’è una regola: il sommelier deve fare una sboccatura leggermente generosa, per farmi assaggiare in cucina. Capita con i grandissimi vini, ma possono anche mettermi alla prova, portandomi un calice difettato. Poi chiedono se mi piace. Mi serve per avere una memoria del vino, capire se è cambiato perché magari sono sopraggiunti i figli oppure si è evoluto in bottiglia. E a volte dico: meglio vendere! A casa praticamente non ho cantina, è raro che porti via una bottiglia, preferisco berle al ristorante, perché sono geloso. Quattro mesi fa allo Chef Table una coppia ha chiesto la Romanée 2017, oltre la degustazione vini. Era l’ultima, costava più di 5000 euro. E il giorno dopo sono tornati per altre due bottiglie. È come quando ti toccano un figlio”.

Margaglio: Quindi Giancarlo non è mai contento! Io sono entrata a Casa Perbellini quando eravamo ancora in Piazza San Zeno, dopo Marco Matta, e diciamo che la cantina ce la siamo portata dietro. Sono piemontese, quindi già da bambina bevevo vino, poi ho imparato ciò che mi piaceva. Da lì ho iniziato a studiare, viaggiare e soprattutto bere. Un corso da sommelier lo possono fare tutti, ma stare a contatto col cliente e capire cosa vuole da poche domande è un’altra cosa. Sono passata dagli Alciati a Serralunga d’Alba, poi al Clandestino da Moreno Cedroni. Attraverso un amico comune ho saputo che Giancarlo cercava e dopo qualche mese che ero parcheggiata alla sua enoteca, ho iniziato.

Perbellini: Avevo bisogno di qualcuno che avesse un’infarinatura su una carta importante, poi il collaboratore in qualche modo lo “costruisci”. Oggi ha in mano tutto lei, io scelgo ogni tanto.

Margaglio: Però sa dove si trova ogni singola bottiglia. Qui la cantina è molto più spaziosa e con calma la riempiamo. Per prima cosa ho cercato di capire cosa c’era e cosa non c’era, poi lo chef è amante della Borgogna, quindi ho fatto mente locale e ho studiato la tipologia di cucina, per capire quali vini abbinare. Non tanto i naturali, quanto i classici. A Piazza San Zeno mancavano gli spazi, quindi si comprava e si vendeva subito, non potevamo andare in profondità.

Perbellini: Mirta ha anche impostato la nuova carta, che conta 800 etichette, il doppio della precedente. Prima avevamo una serie di vini, ma non c’era scritto nulla. Abbiamo cominciato a suddividerli per zone e per cru. Siccome odio i pallini, la ristampiamo 4 volte l’anno, anche perché cambia la tipologia di clientela. In estate raramente si vende la Borgogna, perché arrivano gli stranieri che vogliono bere italiano, quindi abbiamo ampliato il Piemonte e la Toscana, creato una carta di Amarone e inserito il Lugana, per coprire meglio il territorio. Il pairing però è tutto suo, è lei che deve vendere. Io decido solo se un vino entra in carta. Deve piacere a me, anche se qualcuno l’ha infilato ed è già finito.

Margaglio: Il nostro pairing non è fisso, ma sartoriale. C’è chi vuole solo Italia, solo Francia, solo rossi, solo bianchi, zero passiti o bollicine. Quindi c’è un canovaccio, poi due o tre vini cambiano in base alle preferenze.

Zandarin: Il mio ruolo invece è diverso: mi occupo solo di Chef Table. E scelgo i vini con lo chef, perché quasi sempre si tratta di magnum. Sono dodici anni che lo affianco, da Isola Rizza a Piazza San Zeno, in Sicilia e sul Lago di Garda. Con Mirta abbiamo gusti abbastanza sovrapponibili, forse più che con lo chef. Ogni tanto lei passa a fare assaggiare un calice a entrambi per gioco, oppure ci consultiamo reciprocamente.

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Alessandra Meldolesi

Nata a Perugia, Alessandra Meldolesi dopo gli studi e uno stage alla Comunità Europea ha scelto la cucina, diplomandosi alla scuola Lenôtre di Parigi e lavorando brevemente come cuoca presso ristoranti stellati. È sommelier, autrice di numerosi libri, traduttrice e giornalista specializzata da oltre vent'anni.

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