di Paolo Caruso
È fondamentale distinguere tra pubblicità e qualità e sarebbe importante rivolgersi direttamente alle aziende produttrici. Sperequazioni e sfruttamento fanno montare la protesta
La protesta degli agricoltori negli ultimi giorni sta cercando di rimodulare e affinare gli obiettivi: in Belgio e Francia i trattori stanno iniziando a bloccare alcuni grandi siti logistici della Grande Distribuzione Organizzata (GDO), individuata dai manifestanti (e non solo) come principale responsabile dell’iniqua remunerazione per gli agricoltori.
La GDO rappresenta nel sistema distributivo moderno il più grande, spesso unico, canale di vendita per i prodotti alimentari. Le grandi catene di supermercati hanno ridisegnato il sistema della distribuzione in tutto il mondo industrializzato: dall’alto della loro posizione predominante fanno il bello e cattivo tempo in sede di formazione dei prezzi.
I dati sono impietosi: su 100 euro spesi per l’acquisto di prodotti alimentari in Italia, mediamente soltanto 17,7€ rimangono agli agricoltori (dati Associazione Distribuzione Moderna). Una disparità evidente che costringe gli agricoltori a muoversi in un fragilissimo equilibrio tra costi di produzione elevatissimi e remunerazioni ai limiti della sopravvivenza.
La condizione degli agricoltori è più complicata rispetto ad altre categorie produttive a causa della deperibilità dei propri prodotti, che li costringe spesso a vendere al prezzo imposto dai grandi player della GDO, che di solito non brilla per munificenza (mai eufemismo fu così forzato). Nel corso degli anni questo monopolio è diventato sempre più opprimente, fino a determinare vita e morte delle aziende produttrici: negli ultimi dieci anni in Italia hanno chiuso i battenti quasi 500.000 aziende agricole (dati ISTAT), cioé circa il 30% di quelle esistenti sul territorio, e da più parti la GDO viene indicata come la maggiore responsabile di questa moria.
La Grande Distribuzione viene inoltre accusata di stabilire dei parametri tecnici – per l’accettazione del prodotto – che prediligono l’aspetto estetico a quello qualitativo ed organolettico. Il risultato finale di questa politica risiede nelle tonnellate di prodotto respinto, destinato ad ingigantire la massa di cibo sprecato e nel mancato reddito per il produttore. Per non parlare della presenza sugli scaffali di ortofrutta di prodotto insapore.
Cosa si può fare per rimediare a questa situazione? Occorrerebbe innanzitutto una modifica delle nostre abitudini di consumatori, tale da spostare il focus delle nostre scelte sempre più condizionate dai messaggi pubblicitari e sempre meno da effettivi bisogni e qualità dei prodotti. Sarebbe inoltre auspicabile una presa di coscienza del consumatore che dovrebbe privilegiare canali di acquisto alternativi: vendita diretta nelle aziende, mercati contadini, gruppi di acquisto solidali, botteghe di vicinato, potrebbero costituire un primo, anche se limitato argine allo strapotere dei supermercati.
Ci sentiamo inoltre di condividere una proposta portata avanti da alcune associazioni che chiedono di evidenziare sullo scaffale quale percentuale del prezzo pagato per l’acquisto viene destinata all’agricoltore. Sarebbe una bella novità, ognuno potrà decidere chi privilegiare con il proprio denaro.
Forse si sta veramente arrivando al nocciolo della vicenda: il problema principale degli agricoltori è rappresentato dalla disonesta distribuzione dei ricavi lungo la filiera e quindi occorre risalire alla fonte di questi squilibri, ovvero a quelle tre lettere (GDO) che sono il collo di bottiglia che ostacola l’equilibrio necessario tra i diversi attori di questo sistema.
L’unico dato imprescindibile da cui partire è la difesa ad ogni costo del mondo agricolo, fondamentale non solo per assicurare cibo di qualità, ma anche per tutelare territorio e ambiente (oltre a mille altre cose). A meno che non ci piaccia un futuro fatto da carne e latte artificiale, farine di insetti e pannelli fotovoltaici al posto degli alberi.